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«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente»

(K. Marx)

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Muri, dannati della terra e urgenza del conflitto

Muri, dannati della terra e urgenza del conflitto

All’indomani dell’abbattimento del muro di Berlino, il “Muro” per eccellenza, veniva annunciata l’apertura di un’epoca di pieno dispiegamento delle libertà. Quel muro che divideva Berlino aveva anche il valore simbolico di separare il “bene” dal “male”. Era visibile, rassicurante. Al di qua del muro stava la “civiltà”, al di là del muro stava la “barbarie”.

Non è stato “l’ultimo muro” come si declamava con una sola voce, anzi non ne sono mai stati innalzati tanti come dopo l’89. Il 2016 sarà ricordato come l’anno dei muri e delle recinzioni. Muri che non nascono certo negli anni più recenti. Sarebbe troppo lungo l’elenco delle centinaia di barriere che sono nate dopo il crollo del muro berlinese. Basti come esempio richiamare “muri della vergogna” che si sono innalzati a rinchiudere Gaza (sulla base degli accordi di Oslo del 1994), o ancora il muro di Gerusalemme del 2001. La stessa costruzione delle barriere fra Messico e Stati Uniti, oggi al centro delle cronache, prende corpo nel periodo della presidenza Clinton, negli anni 90. Altre barriere divisorie sono sorte nell’indifferenza generale senza clamori e opposizioni significative. Ci sono muri e dispositivi che sono all’avanguardia dal punto di vista della perfezione tecnica messa in campo e come tali vengono studiati per essere riprodotti. Quanto viene oggi realizzato nei territori occupati da Israele è un sofisticato sistema di sbarramenti, di check point permanenti, di sterile road (strade completamente “bonificate” dalla possibile presenza di palestinesi), di distruzione e ricostruzione del paesaggio. La continua distruzione di case ed edifici rappresenta nei fatti una riprogettazione dell’ambiente umano che spezza la continuità storica, territoriale e sociale, e con essa l’identità, del popolo palestinese. Rimane ben poco dell’ambiente storico-morfologico in cui nacquero i palestinesi che oggi hanno circa cinquant’anni. Un sistema all’avanguardia, si è detto, quindi un possibile dispositivo a disposizione per politiche di separazione lungo la linea del colore e dell’appartenenza di classe e della gestione del controllo sociale, potenziale incubo futuro di tutti noi.

Nulla di nuovo quindi? Non proprio. Se il muro di Berlino e la “cortina di ferro” segnavano la divisione della guerra fredda, le recinzioni che spuntano a difendere la Fortezza Europa e la loro estensione sul confine fra Messico e Stati Uniti sono il segno della guerra inumana dichiarata contro i “dannati della Terra” di oggi. Una guerra contro un esercito di uomini, donne e bambini che fuggono da condizioni di vita inaccettabili, dalle guerre neocoloniali e dagli effetti della distruzione degli ambienti del Sud del mondo. Questa umanità in fuga altro non è che il prodotto di un violento modello produttivo globale che si fonda sulla ricerca di un surplus da estrarre dallo sfruttamento del lavoro umano e della natura. La geopolitica dei muri è lo specchio del modello oggi dominante. Come uno specchio riflette fedelmente la sua natura profonda di divisione, di esclusione e di espulsione. Inclusione della “materia umana” necessaria ed esclusione, espulsione e recinzione dell’umanità superflua.

Quando oggi si ragiona dei concetti di “povertà” e di disuguaglianza sociale si ha ancora in mente il quadro sociale e il modello di un’altra epoca storica. La fase dello sviluppo capitalistico del secondo dopoguerra era dominata da una relativa logica di inclusione. La frattura epocale dell’ultimo quarto di secolo ha spazzato via quel modello sociale e produttivo. “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” direbbe il Marx del 1848.

Gli apprendisti stregoni delle formazioni predatorie globali, il nuovo “capitalismo estrattivo” si trova oggi a misurarsi, a livello globale, con quanto da loro stessi provocato. Un tempo il Terzo Mondo era “altrove”, oggi si è insediato dentro gli spazi metropolitani del Nord del mondo. I muri di oggi non sono solo quelli che separano chi è dentro da chi è fuori dai confini nazionali. La blindatura dei confini statali procede a ritmo serrato con l’impiego delle nuove tecnologie, mentre aumentano controllo e sorveglianza all’interno. Anche al di qua dei muri si dispiegano barriere, spesso meno visibili, che separano le classi elevate da chi vive in basso. Il pericolo, lungo i confini rappresentato dall’invasione dei materiali umani di scarto della globalizzazione, all’interno del territorio metropolitano, assume le forme concrete del “povero”, dell’emarginato. Nel Sud come nel Nord del mondo, a destra come a “sinistra” la semplice presenza di questo proletariato spossessato di tutto è diventato l’incubo delle classi dominanti che reagiscono con il medesimo riflesso securitario. Contro queste nuove classi pericolose, in espansione per l’enorme accumulo della ricchezza sociale nelle mani di ristrette élite, vengono istituite diffuse recinzioni materiali e immateriali con lo scopo di rassicurare i ricchi alla perenne ricerca di sicurezza e di separazione dai rischi della contaminazione. L’industria della paura e dei suoi servizi non conosce crisi e conquista quote di reddito nazionale sempre più consistenti. Ecco quindi la proliferazione dei sistemi di allarme e di sorveglianza, il controllo ossessivo dei luoghi pubblici, la schedatura biometrica, le armi invalidanti. L’impiego dell’esercito, le guardie in servizio 24 ore su 24, i palazzi fortificati, la costruzione di quartieri per ceti abbienti, vere e proprie zone di extraterritorialità. Interi spazi sociali sono allestiti come fossero scenari di guerra. Una guerra sociale, nascosta sotto le sembianze della normalità, della necessità di difendersi dai pericoli del risentimento dei poveri. Il tutto amplificato dalle campagne di allarme periodicamente lanciate dai megafoni dei mass media.

Scriveva tempo fa Teresa Caleira a proposito delle nuove recinzioni: “San Paolo è una città piena di muri. Sono stati costruiti muri dappertutto – intorno alle case e ai palazzi, ai parchi, alle piazze, agli uffici e alle scuole. Una nuova estetica della sicurezza ispira le costruzioni e impone una logica di sorveglianza a distanza”. Nei grandi ammassi urbani dell’America Latina sono sorte a decine gli steccati che delimitano spazi di segregazione sociale ed economica, nascondendoli alla vista dei turisti e dei ceti benestanti. Sono spuntati negli ultimi tre decenni nel silenzio dei media e nell’indifferenza delle sinistre occidentali. “Muri del silenzio” sono stati non a caso chiamati. Siamo in presenza di dispositivi che si inseriscono in una tendenza che si sta estendendo in modi e con velocità diverse un po' dappertutto. Le nuove povertà bussano alle porte della Casa Bianca e delle metropoli americane che reagiscono con la ghettizzazione (inserire dei casi? USA, Europa dell’Est, Russia)

Dall’alto guardano la città le gated community. Comunità residenziali superprotette, dotate di una polizia privata, di servizi propri, sistemi di sorveglianza elettronica che ne impediscono l’accesso. Isole protette in un mare di nuove povertà.

Si dirà che il muro e la recinzione sociale non sono novità, lo è però la loro estensione e la loro origine. Oggi c’è un enorme salto quantitativo e qualitativo che non si può ricondurre al solo dato evidente dell’aumento della povertà e delle disuguaglianze. Nella nuova ragione del mondo quello che si afferma è la logica dell’espulsione che comporta una feroce selezione. In seguito alla grande frattura storica che si origina dalla fine degli anni 70 del secolo scorso si sono affermati meccanismi di valorizzazione e accumulazione del Capitale che prevedono un diverso governo delle classi subalterne. Il capitalismo predatorio globale promuove una logica di sistema in cui la produzione dei profitti si è spostata anche all’esterno delle fabbriche. Gli spazi globali sono sottomessi a operazioni economiche che comportano lo spostamento di attività produttive, di servizi, di coltivazione di prodotti agro-industriali in regioni che offrono bassi costi produttivi e una legislazione tollerante. La logica non è solo quella del tradizionale sfruttamento della forza lavoro. Immense distese di terra dei paesi del Sud del mondo vengono acquisite e sfruttate in modo intensivo. Uno sfruttamento che in non pochi casi significa ridurre ambienti naturali a distese gigantesche di lande spremute che si trasformano in “terre e di acque morte”. I terreni entrano nel circuito del mercato globale con il consenso degli stessi governi nazionali, spesso ricattati della necessità della restituzione del debito. Nell’Asia meridionale l’imposizione delle piantagioni di olio da palma si è realizzata distruggendo la consuetudine dell’uso collettivo della terra e delle foreste. In altri termini, attraverso una logica connotata da brutalità e violenza, si sono espulse le comunità locali dal loro ambiente. La natura predatoria del capitalismo globale rende poco significativa, in questa situazione, la distinzione fra “profughi di guerra” e “migranti economici”. Entrambi sono il prodotto della medesima guerra contro i dannati della Terra.

Sulle comunità locali e soprattutto sulle aree metropolitane ricadono i frutti avvelenati dei processi di globalizzazione liberista anche nei termini della disgregazione delle comunità, dell’erosione dei legami sociali costruiti nelle pratiche del Movimento Operaio del 900, del risentimento, della messa ai margini e della necessità di fuggire

I muri, le barriere, i ghetti sono il tentativo di governare le catastrofi umane scatenate dai dispostivi del capitalismo odierno. Richiamiamo come caso significativo il generalizzato aumento della popolazione incarcerata, in primo luogo negli Stati Uniti. Qui si realizzano politiche di incarcerazione che hanno portato alla cifra di 2,5 milioni di detenuti, per di più, con la privatizzazione di alcuni istituti di pena, con finalità di profitto. Il carcere privatizzato si trasforma in attività commerciale.

Non siamo in presenza di una “economia” con le sue leggi inevitabili e naturali, bensì ci confrontiamo con una “economia politica” che come tale va sovvertita. La contraddizione principale, il fronte dello scontro sociale, oggi celato da ingannevoli contrapposizioni, va reso visibile e marcato politicamente. Da una parte gli spossessati, uomini e donne “senza”: senza documenti, senza domicilio, senza lavoro, senza tetto, senza diritti, dall’altra la classe dei nuovi predatori. Da una parte il diritto a una vita dignitosa, al lavoro, al reddito, all’abitazione, all’accesso ai servizi, all’esistenza, dall’altra il diritto alla proprietà privata e alla facoltà di privatizzare.

Come scrive Marx in un passaggio del Capitale: “Tra due diritti uguali è la forza che decide”. Oggi la forza è nelle mani delle formazioni predatorie dominanti. Per noi la prova della forza può esistere solo se si realizza un percorso di ricomposizione delle classi sottomesse. Per una prospettiva che sia capace di guardare alla rimessa in discussione del “diritto sovrano” dei proprietari, che punti all’appropriazione sociale delle condizioni di vita intanto è necessario schierarsi senza finzioni dalla parte dei dannati della Terra. Quindi procedere alla riappropriazione delle tradizioni, dello spirito, delle pratiche collettive degli oppressi.

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