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Per costruire una proposta politico-editoriale.
Da questo numero Lotta Continua da giornale con uscite occasionali, si trasforma in mensile. Sarà un periodico che si confronta con le crisi (economiche, ecologiche, umanitarie, culturali, sociali) che attraversano il nostro sistema sociale, che si misura con le logiche emergenziali diventate oramai forme di vita normali del capitalismo moderno. L’emergenza, lo shock, l’eccezione, la crisi trasformate in meccanismi per creare profitti e controllo sociale. Assumeremo lo sguardo e il punto di vista delle classi subalterne, di chi vive in basso, pensando e agendo da “partigiani” nel senso che Gramsci diede a questo termine.
Quelli passati sono stati decenni terribili, sotto ogni punto di vista, politico, sociale, economico. È stato il tempo della controrivoluzione. Il Capitale, attraverso profonde ristrutturazioni che lo hanno portato da essere principalmente industriale a essere soprattutto finanziario, ha sferrato attacchi micidiali alla struttura sociale precedente erodendo gli spazi, i livelli di potere e le condizioni di vita che i proletari, e più in generale i subalterni, avevano conquistato. In questo quadro l’intero “fronte progressista” (e in non pochi casi quello rivoluzionario) ha interiorizzato il senso della sconfitta a un livello tale da risultare catturato e assoggettato al modello vincente. L’azione politica e il dibattito fra gli eredi delle sinistre storiche si è ridotto a come spostare i rapporti di forza restando all’interno delle regole di un gioco dettato da altri. Oggi, quantomeno a livello europeo, la maggior parte delle forze e dei movimenti che si definiscono di sinistra fondano il senso della loro esistenza in estenuanti battaglie tattiche concernenti il loro posizionamento elettorale e la formazione di cartelli e aggregazioni in funzione delle elezioni stesse. La lotta di classe oggi condotta dall’alto nei confronti delle classi subalterne, e che si traduce in precarizzazione e impoverimento, è uscita del tutto dalle pratiche, dalle riflessioni e dalle sensibilità delle forze che si definiscono “di sinistra”.
Come compagni del Collettivo redazionale in costruzione abbiamo fatto un ragionamento di massima sulla grande trasformazione che ha subito il sistema negli ultimi 35 anni e che ha interessato le condizioni di esistenza materiali e ideologico-culturali. Un mutamento che ha rivoluzionato il modo di produrre e di consumare, i rapporti fra le classi, la natura del pensiero dominante, la stessa antropologia, con un cambiamento dei comportamenti sociali, degli atteggiamenti, delle mentalità, dei modi di essere. Il risultato è sotto i nostri occhi. Il moderno proletariato è oggi sottomesso ad un dominio “flessibile”, la sua vita esposta al rischio e al ricatto permanente, integrato in una società del controllo, la sua coscienza e il suo stesso immaginario colonizzati dai modelli dominanti.
I meccanismi del capitalismo flessibile hanno prodotto nuove condizioni proletarie (nuove come figure sociali e come dato quantitativo) che si sono materialmente tradotte in deprezzamento del valore del lavoro, in declassamento delle condizioni di vita della base sociale, in precarietà. È ritornata quella “povertà assoluta” che nel fordismo maturo sembrava debellata come problema sociale o quantomeno ridotta a fenomeno marginale.
La diffusione di queste condizioni sociali ha determinato una crisi di legittimità del sistema e un acuirsi delle contraddizioni sociali che, incontrando enormi difficoltà a strutturarsi in rivendicazioni collettive consapevoli, si esprimono in diverse forme di “disordine sociale” e di “illegalità”. Nel capitalismo in versione neoliberista, che finora è riuscito a chiudere i canali della rivendicazione collettiva, i conflitti parziali tendono ad essere concepiti dal sistema come anomalie sociali, ad essere etichettati come irrazionalità, devianza, criminalità, quando non terrorismo (il sempre paventato pericolo del “ritorno delle ideologie” e degli “anni di piombo”).
Dentro un tessuto sociale lacerato, di usura dei legami sociali, di produzione di marginalità a livello di massa, sono emersi processi di ri-carcerizzazione. Dopo anni di riduzione del numero dei carcerati, le carceri si sono riempite in modo spropositato; per alcuni paesi (negli Usa si sono superati i 2,5 milioni di detenuti) si può parlare di “nuovo grande internamento”. È evidente che i meccanismi di funzionamento del nuovo capitalismo, la riduzione delle politiche di “stato sociale”, richiedono una specifica strategia di controllo sociale, un sistema poliziesco-penale che funzioni come governo della marginalità sociale strutturalmente prodotta.
D'altra parte molti dispositivi di controllo sociale hanno finalità di prevenire le “anomalie” anti-sistemiche e si concretizzano in nuovi sistemi di sicurezza, militarizzazione e pattugliamento regolare del territorio urbano.
L'ossessione securitaria, le politiche di “tolleranza zero”, moltiplicano i controlli e potenziano le nuove forme di sorveglianza. Il territorio metropolitano (oggi lo spazio pericoloso per eccellenza) è coperto da una ragnatela di videosorveglianza capace di spiare ogni movimento grazie alle nuove tecnologie.
Dalla frantumazione della vecchia “classe laboriosa” emergono “nuove classi pericolose” fra cui si distingue il “proletariato d'importazione”. Su questo segmento di classe globale si è costruita la figura del “nemico pubblico” numero uno, da controllare rigidamente con un sistema di governo che consenta di estrarre il massimo di profitto con la minor spesa possibile.
Per queste figure di proletariato migrante sono stati predisposti strumenti “d'eccezione”, i lager per migranti, i CPT, CIE, oggi CPR. Creati per controllare i flussi, questi lager “amministrativi” stanno lì come monito, come modello di governo delle “classi pericolose”, come sperimentazione di tecniche di controllo e repressione da estendere a tutti i marginali. Rappresentano un atto politico di una guerra metropolitana contro i nuovi poveri, contro gli scarti umani prodotti dal capitalismo del dopo-fordismo.
Certamente queste considerazioni sintetiche necessitano di approfondimenti analitici, di verifiche sul campo, di inchieste e con-ricerche adeguate. Richiedono la nostra trasformazione in “ricercatori scalzi” che siano capaci di mettersi in gioco nel mondo reale delle condizioni e delle resistenze dei proletari di oggi. Il quadro da cui partiamo non è certo confortante, ma non può essere rimosso. Solo su questi dati di realtà si può progettare la costruzione di un pensiero politico per questi tempi.
La frammentazione del moderno proletariato, la distruzione delle forme di comunità che non siano all’interno di logiche di mercato, il consumo dei legami sociali in direzione dell’individualismo, il dilagare delle forme del controllo sociale e individuale, ci rimandano il quadro delle difficoltà della nostra prospettiva. Oggi il legame fra i diversi segmenti del moderno proletariato deve essere costruito operando ancora nei luoghi di produzione, ma anche (forse soprattutto) al di fuori, nel “sociale”. Nelle condizioni odierne la ricomposizione della “comunità proletaria” non può darsi spontaneamente. Va ricercata e costruita dall’azione cosciente e volontaria della militanza collettiva.
Le caratteristiche di questa fase storica ci obbligano a pensare alla resistenza attiva. Questa è la forma di lotta di classe che dobbiamo esercitare nel nostro tempo. Siamo costretti a praticare l’azione collettiva in direzione della costruzione di spazi di resistenza, di difesa delle nostre condizioni di esistenza, allo sviluppo dell’elaborazione collettiva, all’approfondimento della coscienza delle cause della miserevole condizione di vita e di lavoro della nostra parte sociale. Questa pratica politica è forse la sola base che può oggi consentirci di pensare di poter tornare un giorno all’attacco.
Abbiamo anche provato a ragionare sui movimenti che hanno tentato di oltrepassare la notte. Movimenti che hanno portato contenuti e pratiche nuove. Se provassimo a ripensare a tutte le situazioni di lotta e di movimento sociale che si sono dati in questi ultimi 15 anni avremmo davanti a noi un mosaico di situazioni che hanno coinvolto un po' tutti gli aspetti della vita sociale e delle sue contraddizioni. Non possiamo però evitare di sottrarci ad un bilancio sulla loro capacità di incidere sui rapporti di forza complessivi e sulla loro continuità nel tempo. Gli stessi movimenti di resistenza agli effetti della crisi, esplosa da noi nel 2008, hanno attraversato molti luoghi della produzione e riproduzione sociale. Senza voler ripercorrere tutte queste situazioni ricordiamo solo le centinaia di episodi di resistenza contro lo smantellamento degli stabilimenti, gli episodi di contrasto al saccheggio dei beni naturali, con la Val Susa in testa, i movimenti di massa di opposizione alla ulteriore privatizzazione e ridefinizione del sistema della formazione e dell’istruzione. Non possiamo però nasconderci il fatto che non si è aggregato, nemmeno in forma embrionale, un soggetto sociale collettivo capace di fermare il piano inclinato su cui tutti stiamo da tempo scivolando.
Abbiamo l’obiettivo di dare voce e valorizzare i conflitti e le resistenze che si formano nella realtà sociale come espressione dei bisogni creati dalle contraddizioni di questo sistema. Ci interessa mettere in rilievo le pratiche di solidarietà, di condivisione e di mutuo aiuto che nascono dal basso, in quanto comportamenti che di fatto sono in opposizione alle logiche dominanti del mercato e dell’individualismo. Ancora, vogliamo dare risalto all’aggregazione, al collegamento delle lotte, a tutto quanto contrasta la competizione e la frammentazione dei nostri soggetti di riferimento. I conflitti per la realizzazione dei propri bisogni, contro un capitalismo predatorio di risorse comuni, sono le manifestazioni di un sistema che produce, per la sua stessa natura, disuguaglianza e marginalità, che si appropria di tempo di lavoro altrui e di beni naturali, che trasforma in merce ogni cosa che incontra.
Questo primo livello, cioè il proporsi di essere di essere un megafono delle resistenze diffuse, non è sufficiente. In un mondo di sovrapproduzione di informazioni e di rumori di fondo, saremmo una voce che si confonde tra le tante che oggi bombardano le menti. È necessario costruire un significato, dare un senso, alla condizione dei moderni proletari, al disagio e alle sofferenze, alle opposizioni che si formano nel tessuto dei rapporti sociali.
Se è vero che ogni lotta porta in sé un significato politico implicito (perché nasce dalle contraddizioni del sistema), questo va reso esplicito. Il che significa operare per collocare i bisogni dei subalterni dentro il sistema complessivo, nei suoi rapporti sociali, nei meccanismi che producono le classi sociali. Vuol dire individuare e indicare il nemico reale (superare le retoriche anti-casta, a cui va sostituita la controparte di classe), i suoi strumenti, il ruolo odierno dello Stato e dei suoi apparati ideologici, la funzione sempre più estesa delle diverse forme di controllo sociale.
Significa rendere espliciti i meccanismi odierni del capitalismo che conducono all'impoverimento, al declassamento sociale, alla compressione dei bisogni, alla precarietà lavorativa ed esistenziale, al deterioramento del lavoro, all'esposizione al rischio sociale del capitalismo flessibile, alla mercificazione generale e all’alienazione che impoverisce il nostro vivere, alla sovrapproduzione di “scarti” umani.
Crediamo sia necessario un terzo livello, oggi molto più complesso, per dare vita alla nostra proposta politico-editoriale. Senza una proiezione forte verso il futuro, senza la spinta propulsiva nella direzione di un “sogno”, verso una “utopia”, le lotte restano nel loro recinto, più o meno piccolo. Tendenzialmente restano scollegate, manca l’elemento che sia capace di fare da collante, di unificare le forme di antagonismo che sono prodotte dalla natura di questo sistema. Quando, verso la fine degli anni 70, anche fra i compagni, iniziò a passare l’idea che era finito per sempre il tempo dei grandi progetti storici, si è lasciata libera la strada verso l’esistenza di unico grande progetto storico: quello del dominio totale del Capitale. Senza un grande progetto di trasformazione sociale è poco probabile una ripresa del nostro cammino e la trasformazione dei rapporti di forza. Un progetto che deve fondarsi sulla critica radicale a questo sistema, sull’analisi dei suoi effetti sociali e ambientali, sul movimento reale delle lotte e delle resistenze contro le conseguenze sulle vite delle persone che questo ordine sociale produce.  Non possiamo fare a meno di quel “sogno di una cosa” di cui ci ha parlato il giovane Marx.                                                                                    
La nostra proposta sarebbe quindi incompleta se non provassimo a lavorare per rimettere in campo il bisogno di transizione verso un nuovo ordine sociale. Un bisogno che nasce dagli effetti economici, sociali, antropologici, dall’impoverimento materiale e umano propri del sistema sociale capitalistico. Ma questo va mostrato, va reso evidente sulla base della realtà sociale, economica, geostrategica, delle condizioni lavorative e anche a partire dall’odierna miseria della vita quotidiana.
Da questo quadro mancano molti ingredienti, prima di tutto manca ancora la dimensione internazionale. Anche se diamo spazio alle esperienze che si muovono in altri paesi, è difficile, nel contesto odierno, assumere una visione internazionale che pure sarebbe di vitale importanza per ricostruire un pensiero politico all’altezza delle sfide del presente.
Torneremo presto a sviluppare questi temi, qui appena abbozzati, con un documento più approfondito. Intanto vi chiediamo di contribuire in tutti i modi possibili alla crescita di questo progetto, sostenendoci economicamente, inviando articoli, lettere, riflessioni, critiche.
Parafrasando Walter Benjamin il nostro compito è quello di trasformare lo stato di eccezione in cui siamo costretti in uno stato di emergenza per le classi dominanti.
“La tradizione degli oppressi ci insegna che lo "stato di emergenza" in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza” Walter Benjamin