Ci sono eventi storicamente significativi ma ignorati dai più e non casualmente silenziati dai grandi mezzi di comunicazione. È il caso della marcia indigena El Sur resiste! dipanatasi dal 28 aprile al 9 maggio attraverso 7 Stati messicani dove a giorni verrà inaugurato il Tren Maya che, lungo un tracciato di ben 1500 km, trasporterà annualmente i trenta milioni di turisti previsti a visitare, felici e ignoranti della vera storia e dei suoi delitti, i consistenti residui archeologici della civiltà maya, aggredita ma non definitivamente cancellata dai loro lontani progenitori (vedi il libro di Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina).
Non cancellata perché ancor oggi — dopo 531 anni dallo sventurato arrivo in queste terre di Cristoforo Colombo che dette l’avvio a uno dei più grandi saccheggi della storia - El Sur resiste!.
Nella dichiarazione finale dell’incontro conclusivo svoltosi il 6 e 7 maggio al caracol Jacinto Kanek, nei dintorni di San Cristóbal de Las Casas, l’antica Ciudad Real, si legge: “Assistiamo ai suoi effetti devastanti sui nostri territori, ma sentiamo anche con grande forza la resistenza dei nostri popoli, che hanno salvaguardato la nostra stessa esistenza come popoli indigeni”. Una ferita lunga 1500 km e larga decine di metri, aperta nel cuore di foreste tropicali fino a ieri incontaminate.
Non ci soffermiamo sulle ragioni di questa resistenza al Tren Maya, che maya non è se non nelle fantasie degli ideatori e dei futuri viaggiatori, perché sono ampiamente illustrate nella Dichiarazione finale. Non ci soffermiamo neppure sui toccanti incontri con le comunità visitate durante la marcia, ben documentati dal resoconto della marcia citato sopra, dove si trova una ricca raccolta fotografica unita all’informazione sugli specifici temi locali affrontati, luogo per luogo. Leggerla è un’utile riflessione sulle ‘altre’ culture ancora esistenti nel mondo, circa 50 nel solo Messico.
Vogliamo invece invitare a riflettere sull’importanza della sopravvivenza delle culture che non hanno operato quella cesura che ha separato l’homo sapiens occidentale dal suo ambiente naturale e che oggi, agli spiriti critici, appare sempre più infausta nelle sue conseguenze.
Nel 1996 il filosofo della liberazione Giulio Girardi pubblicava un libro dal titolo intrigante: «Gli esclusi costruiranno la nuova storia? Il movimento indigeno, negro e popolare». Un interrogativo utopico, che però oggi, di fronte ai sempre più frequenti interrogativi sulla sorte della civiltà occidentale, acquista un sapore realistico.
Alla ricerca di mantenere il proprio dominio sul mondo e in piena perdita di senso della realtà, la tecno-scienza occidentale è impegnata nella creazione di un nuovo tipo di homo. È di piena attualità quello che scrisse lo studioso Scott Eastham in un bel documento dal titolo Visioni del mondo in collisione. La sfida dell’ingegneria genetica (pubblicato nel 2005 dalla rivista InterCulture): “Forse, prima di lasciare alla scienza moderna l’ultima parola sull’evoluzione dell’homo sapiens, abbiamo bisogno di ascoltare altre culture e di sperimentare alcuni degli altri modi di essere umani”.
Diversi rappresentanti del popolo maya assieme a decine di persone di altre culture hanno condensato il loro pensiero nella sopra ricordata dichiarazione che merita una attenta lettura. Lo storico Carlos Montemayor, scrittore illuminato, nel 2000 scrisse un libro che rimase inedito in Italia a causa della sua prematura morte: Los pueblos indios de Mexico hoy. In esso esortava: “I popoli indios del Messico oggi parlano, ascoltiamoli!”.
Negli ultimi 50 anni i popoli indigeni del Messico e del mondo infatti parlano con crescente intensità. E hanno detto con chiarezza che vogliono “un mondo che contenga molti mondi diversi”, non un mondo modellato su una sola cultura, quindi irrimediabilmente più povero.
Certo, un numero crescente di persone oggi in Occidente tende l’orecchio alle loro parole. Ma non certo quelli che ne reggono le sorti. Ë di questi giorni un cinguettio tipo twitter intercorso fra due rappresentanti purtroppo qualificati — nel senso che fanno parte di quelle poche centinaia di VIP che passano instancabili da un forum istituzionale all’altro per disegnare le sorti del mondo. Nel caso specifico che ora citiamo si è trattato del World Government Summit svoltosi lo scorso marzo a Berlino per plasmare il governo mondiale che nei loro programmi, Cina e Russia permettendo, si prevede attuato negli anni ’70 di questo secolo (ma come, non lo sapevate?).
Il cinguettio ha avuto luogo fra Klaus Schwab, fondatore e leader del Foro di Davos (WEF — Foro Economico Mondiale) e Elon Musk, che guida la classifica per ricchezza personale dei tecno-filantropi ultramiliardari. Schwab da tempo disegna un tipo di uomo nuovo universale, frutto del Grande Reset, ed è apparentemente più tollerante verso le altre culture, in quanto consiglia di conservarne “alcune” come uscita di sicurezza nel caso che qualcosa andasse storto nella costruzione dell’homo digitalis (vedi “Musk vs. Schwab at World Government Summit”).
Una preoccupazione puramente strumentale, egoistica, di comodo, non di comprensione della enorme ricchezza propria di ogni singola cultura.
Ma, e questa è una buona notizia, El Sur resiste! E non solo in Messico. Alle due giornate di chiusura della marcia erano presenti rappresentanti di vari paesi, fra cui l’Italia, e fra gli oratori ufficiali hanno parlato una donna curda nonché Raúl Zibechi, un attento osservatore e divulgatore della resistenza indigena e popolare in America Latina, di cui è uscito negli scorsi giorni un nuovo libro: Mondi altri e popoli in movimento. Dall’America Latina al Kurdistan. Un’utile rassegna di alcuni altri modi di essere umani, la cui lettura può essere di stimolo a uscire dai nostri usurati stereotipi.
Per il libro contattare
Aldo Zanchetta via email