Rimini, Interno 4, 2024, 2 cd + libro, pp. 144, € 35.00
I contenuti politici di una canzone, rispetto a quelli amorosi e morali, presentano in genere un limite: quello di essere più strettamente legati all’epoca della composizione. Fatti, luoghi, circostanze e persone la cui memoria può essere andata persa per le più svariate ragioni: naturali processi di selezione mnemonica, l’obsolescenza dinanzi al mutare del quadro sociale e culturale delle epoche, ed altro ancora.
In questi casi, per la piena consapevolezza di ciò che si ascolta, occorrono sufficienti conoscenze storiografiche o, viceversa, si può trovare spunto proprio per conoscere, approfondire e, magari, ravvivare il ricordo di ciò che la coltre del tempo ha coperto ma che è rimasto lì, ha la sua importanza, perché ha inevitabilmente riguardato vita, bisogni e aspirazioni di donne e uomini del passato più o meno remoto. Ed il passato, nella sua interezza, nei suoi slanci e nelle sue cadute, è ciò che ci ha portato qui dove siamo.
Veniamo quindi a questa raccolta, pubblicata dall’interessante realtà editoriale multimediale della Interno 4, con la collaborazione de La Lunga rabbia, Archivio del lungo sessantotto italiano, esperienza che, sfociata sui social con ampi riscontri ed interazioni, ripropone il materiale dell’epoca, con molto inedito. Due cd contenenti 41 brani per 138 minuti di musica, prodotta dal 1969 al 1974, allegati ad un vivace libro con title track, testi, contributi dell’epoca, parti didascaliche e riproduzione anastatica dei booklet dai vinili originali. Si nota a riguardo come fosse già in uso la tecnica cut and paste, ritaglio ed incollatura, che avrebbe poi caratterizzato la grafica punk.
Qui il punk, anticipato dallo spirito do it yourself, dalla conseguente qualità low – fi, da certa estetica situazionista e anche — perché no? — dai contenuti, soprattutto per quanto riguarda l’Italia, è però ancora lontano nell’impatto sonoro. I brani sono tutti classificabili sotto quello che all’epoca veniva definito folk: voce, talvolta solo quella, chitarra, qualche armonica a bocca, qualche flauto, più raramente una percussione per dare il ritmo e pochissimo altro. Banditi gli strumenti elettronici, gli stessi, del resto, che in quel periodo erano motivo d’interdizione dalla label I Dischi del sole. Le arie riprese sono a volte quelle tradizionali del movimento operaio, a loro volta derivanti da chissà dove, della tradizione popolare in generale, dal folk angloamericano e irlandese, dal cabaret e l’avanspettacolo o anche dalle hit del momento. Poteva capitare che il testo scritto sopra fosse una risposta a quello della musica originale. Qui subentrava una duplice funzione: la, sempre incisiva, parodia dell’originale e nello stesso tempo l’appoggio su una melodia conosciuta, espediente essenziale derivato dall’epoca in cui le tecnologie per la riproduzione del suono non erano diffuse ma si cantava dappertutto, in ogni momento, nel tempo libero, da soli e in coro, per entrare in sintonia con gli altri, per ingannare il tempo, sopportare la monotonia e alleviare la fatica. Da qui, infatti, l’esigenza di partiti ed organizzazioni di dotarsi di cantastorie, cantacronache e circuiti musicali per propagandare le proprie posizioni e guadagnare consenso. I partiti, in genere, producevano dischi, solitamente 45 giri, per le scadenze elettorali. Non si sa quanto questi elementi abbiano inciso sui risultati ma la cosa, evidentemente, aveva una sua efficacia, tantoché vi avrebbe fatto ricorso, in tempi successivi, anche l’estrema destra, con sbiaditi scopiazzamenti di quanto si produceva sul fronte opposto.
Nel caso specifico, si raccoglie quanto editato da Lotta continua (Lc), cioè dal gruppo del Potere operaio pisano fino a quando Lc si apprestava a diventare partito, come sarebbe avvenuto nel 1975, per poi prendere parte alle Elezioni politiche dell’anno successivo. Lc vuol dire sì dei punti sostanzialmente fermi e obiettivi ben definiti ma senza dogmatismi ideologici, con la necessaria flessibilità e la capacità di adattamento alle diverse condizioni oggettive. I brani immortalano quel frangente di slancio avuto a seguito del Sessantotto. Il passato, la tradizione appaiono ma non sono predominanti: si guarda al futuro e con abbondanti fughe in avanti dove si presagisce l’imminente sconvolgimento rivoluzionario, atto a spazzare via il vecchio mondo, così come le formule considerate palliative delle riforme di struttura. Lo scontro campale in fin dei conti è tra il proletariato e i padroni, con questi destinati inesorabilmente a soccombere sotto il fuoco della classe operaia. Non ci sono mezze misure. Ebbene, già cinquantun anni fa, cioè negli scritti riproposti nel testo, si comincia a guardare a questo slancio con un certo distacco, constatata la difficoltà d’uno sbocco rivoluzionario, almeno a breve termine, che pure i fermenti sociali e politici avevano fatto sembrare a portata di mano.
Facciamo quindi una panoramica nel merito delle tracce riprodotte, per cui, scrive in introduzione il curatore, “in studio è stato fatto unicamente un lavoro di selezione, equalizzazione, master e controllo”, lasciando rumori, fruscii e distorsioni degli originali, di modo da conservarne le atmosfere. Alcuni brani mantengono inalterato il loro potenziale alla prova del tempo, altri inevitabilmente meno. Si canta prevalentemente in italiano, con qualche espressione di dialetto o di inflessione dialettale. Testi e voci, con una certa interscambiabilità, sono principalmente di Alfredo Bandelli, Riccardo Bozzi, Pino Masi e Piero Nissim ma il collettivo prevale comunque sul singolo, che c’è, magari determina ma non è centrale. Compaiono anche altre espressioni collettive locali come il Canzoniere di Salerno. Si nota, in larga parte, un perlopiù riuscito lavoro di trasposizione in cantato delle posizioni e delle politiche di intervento di Lc.
Si parte ovviamente dal Pisano, con pezzi come Mario della Piaggio, Gino della Pignone e 15 ottobre alla Saint Gobain: nomi di diversi complessi industriali che nei decenni successivi, sino ad oggi, sarebbero tornati alle cronache ma per la chiusura, lo smantellamento, le acquisizioni di multinazionali straniere e le delocalizzazioni. Allora si era ancora nel ciclo espansivo; il mutamento c’era già ma in superficie ancora non si avvertiva.
I principali brani – manifesto sono: Lotta continua, Prendiamoci la città e L’Ora del fucile, dove si annunciano attraverso pennellate le idee e le prospettive di Lc nei vari ambiti della società per cui, in altre canzoni, si entra nello specifico, con le carceri/ Dannati della Terra (Liberare tutti, etc.), le caserme/ Proletari in divisa (Questa prigione è scura e Ti ringrazio ministro), i quartieri (Via Tibaldi taranté e Roma, San Basilio), l’emigrazione (Sarete voi padroni ad emigrare e Non piangere oi bella) e i tributi ai compagni feriti e caduti (Quella notte davanti alla Bussola, La Ballata del Pinelli, il brano con ogni probabilità più famoso della compilazione, Compagno Saltarelli noi ti vendicheremo, Tonino Micicché e Quello che mai potran fermare). Per le questioni strettamente internazionali c’è Il Cile è già un altro Vietnam, mentre sull’Irlanda del Nord, su cui Lc aveva una particolare attenzione, ci sono tre traduzioni: Libera Belfast, No, nessuno mai ci fermerà e I Volontari di Bogside. Contro la sinistra tradizionale, spicca il pezzo Berlinguer. Diversi i brani a carattere più generale, dove magari si affrontano insieme la condizione proletaria, le questioni di vertenza aziendale e gli attacchi a singoli esponenti politici, in cui il tutto è chiaramente inquadrato nella conflittualità di classe.
Alcuni titoli sono ripresi da inni allora già tradizionali (il mondo era cambiato in fretta) del movimento socialista e comunista, con eventuali varianti più o meno invasive sul testo, come: L’Internazionale proletaria, Vi ricordate quel 18 aprile e Olé, olé, olé…, con De Gasperi non se magna.
Sembra tutto “ma non finisce qui!”.
Silvio Antonini