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«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente»

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Gli attentati del 12 dicembre 1969 aprono uno dei periodi più bui e drammatici della storia del nostro Paese

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di Giuseppe Muraca
Con gli attentati del 1969 e la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre e la morte di Pinelli, si conclude la fase più esaltante del ’68 e dell’autunno caldo e si apre uno dei periodi più bui e drammatici della storia del nostro paese, di grande instabilità politica, con un clima di violenza che ha lasciato dietro di sé una scia di sangue e decine e decine di morti. <<Alla gioiosità del sessantotto, segue la cupezza degli anni settanta, alla creatività dei cortei studenteschi seguono le barriere dei servizi d’ordine>>, la loro militarizzazione. Da quel momento ebbe inizio la fase più drammatica di quel fenomeno che si suole definire <<strategia della tensione>>, con cui gli apparati statali, i servizi segreti deviati, i golpisti, i terroristi neri ecc. tentarono di instaurare un clima di terrore e di allarme permanente cercando di influenzare l’opinione pubblica al fine di giustificare l’instaurazione di uno stato di polizia e di una restaurazione politica e di bloccare il pericolo di una conquista del potere da parte della sinistra.
Una fase storica e politica in parte nuova, in cui l’itinerario e l’attività dei partiti extraparlamentari si è trasformata in una continua corsa ad ostacoli; un periodo di durissima conflittualità politica e sociale e di contrapposizione frontale tra gli opposti estremismi, e tra le avanguardie dei partiti rivoluzionari e dei movimenti e le forze dell’ordine che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di violenza, di sangue, di attentati, di misteri, di ferite ancora aperte. Pur con le dovute differenze, è bene ricordare che nei primi anni settanta l’uso della violenza era parte integrante del bagaglio ideologico dei gruppi dell’estrema sinistra, da non confondere però con le modalità d’azione seguite dei gruppi terroristici clandestini. La loro attività prevedeva l’uso della violenza rivoluzionaria come mezzo di contrasto con il potere, le forze dell’ordine e gli estremisti di destra. “Non ci fu gruppo dell’estrema sinistra, vecchio o nuovo, che in quei primi anni del decennio non si pose il tema della violenza e della lotta armata. Esso, come si evince dalla lettura della pubblicistica, fu prospettato e analizzato nella stampa della sinistra extraparlamentare. Gli esiti di questo gran parlare di violenza, insurrezione, legittimazione storica della lotta armata, non furono affatto omogenei nei comportamenti e nel modo di agire. Prova ne è che la scelta della lotta armata riguardò solo una parte minoritaria della militanza di nuova sinistra. L’adesione a una prospettiva rivoluzionaria prevedeva in quegli anni l’accettazione implicita della violenza, intesa come strumento a volte necessario per condurre la lotta politica contro la reazione conservatrice e la forza, sovente ai limiti della legalità, delle istituzioni repressive. Ma ciò non volle dire accettare una strategia insurrezionale fondata sulla lotta armata, né predisporsi a costituire o a aderire a organizzazioni clandestine che tale modalità di lotta già praticavano.” (Diego Giachetti, L’area della sinistra antagonista”). A tutto questo è da collegare il processo di militarizzazione dei servizi d’ordine, spesso in contrasto tra di loro, che sovente operarono oltre i confini della legalità democratica. “Nel corso degli anni 70, un fattore che legittima la violenza è la diffusione, nella controcultura della sinistra, dell’immagine di uno stato violento e ingiusto, di uno stato, cioè, che ha violato le stesse regole del gioco democratico. La giustificazione più forte per l’uso della violenza viene dalla convinzione che lo stato sia mandante e complice delle stragi di innocenti che hanno insanguinato il nostro paese. Negli anni che seguono alla strage di Piazza Fontana, i militanti vivono nella paura di un colpo di stato autoritario. Qualsiasi sia la reale probabilità che esso si realizzi, i timori hanno un impatto diretto sulla vita degli attivisti della sinistra, non solo radicale. Fra i più radicali si diffonde la convinzione che sia necessario equipaggiarsi per la resistenza. Numerose biografie documentano una identità cospirativa, caratterizzata dalla paranoia del colpo di stato.” (D. Della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico in Italia 1960-1995, Bari, Laterza, 1996, p. 67). Questo giudizio è confermato da altri studiosi: “L’utilizzazione del terrorismo fascista da parte dello stato è ormai un dato certo, documentato anche nei processi imposti dalla mobilitazione democratica. […] E’ certo che il disegno che mirava alla svolta autoritaria attraverso un clima di tensione e di paura creato dagli attentati, ha avuto le sue radici in settori delle forze armate, della polizia, dei servizi segreti, degli alti gradi dell’amministrazione statale. I governi democristiani e le forze moderate hanno creduto di poter utilizzare la violenza fascista, soprattutto negli anni dal 69 al 74, come strumento di contro-mobilitazione, per controllare le lotte sociali. La violenza di destra ha trovato nell’apparato di stato, e nell’atteggiamento dei governi, coperture, sostegni e complicità che solo lunghi anni di mobilitazione e il coraggio di alcuni magistrati democratici hanno permesso di mettere in luce.” (A. Melucci, L’invenzione del presente, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 108-110).
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