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Tendenza diffusa è quella di considerare il lavoro al di fuori della contraddizione con il capitale, giusto per consentire al sistema di relazioni sindacali la stipula di accordi collettivi nazionali che permettano di costruire percorsi delegittimanti del contratto nazionale anche attraverso il sistema di deroghe che rinviano alla contrattazione a perdere di secondo livello.
Subordinazione del lavoro alla azienda, prevalenza dei doveri sui diritti, prevalere dell'individuale sul collettivo, del contratto aziendale su quello nazionale, sottraendo la dinamica salariale a meccanismi egualitari per ripristinare il salario come variabile dipendente dalla valutazione individuale.
La stessa nozione del diritto ha visto affermare una certa volatilità dei diritti acquisiti, le regole sono imposte ma non valgono quasi mai per la parte datoriale, la Magistratura del lavoro da tempo si pronuncia con sentenze che concedono sempre meno spazio alle istanze della forza lavoro. 
In questo scenario di perdita del potere di acquisto e di contrattazione si vanno affermando nuove regole che vanno anche oltre la prevalenza del contratto di secondo livello rispetto a quello nazionale per affermare invece una idea di smart contract che permetterà relazioni dirette tra datore di lavoro e singolo dipendente, una contrattazione individuale foriera di crescenti divisioni e disuguaglianze.
In questa ottica numerosi contratti nazionali hanno favorito istituti contrattuali che favoriscono alcuni settori a discapito di altri.
Il vero obiettivo perseguito dai padroni è salvaguardare le imprese dal pericolo del conflitto sindacale e sociale, costruire un sistema chiuso e individuale rifiutando un confronto tra impresa e lavoratori egualitario. Con la scusa di ridurre il potere di veto sindacale, i padroni mirano ad obiettivi più ambiziosi ossia quello di individualizzare il salario, accrescere la dipendenza del salario rispetto al perseguimento di obiettivi decisi solo dai padroni nel nome della produttività. 
Se in alcuni paesi industrializzati il salario minimo si colloca a circa la metà del salario di fatto, il minimo retributivo obbligatorio nel nostro paese è sempre stato più alto, ora l'obiettivo è quello di ridurlo, di collegarne una buona parte alla performance, all'aumento della produttività, alla contrattazione individuale.
 Nei fatti parlare di minimo retributivo è un nonsense perché in Italia esistono decine di contratti nazionali molti dei quali prevedono retribuzioni di poco superiori alla soglia di povertà senza dimenticare la prevalenza dei contratti part time che costringono molti lavoratori e lavoratrici a salari di 5/700 euro al mese.
Eppure nella fabbrica dell'assurdo in cui il lavoro si dibatte da anni, la discussione sul minimo retributivo è stata accantonata proprio in virtù della presenza di innumerevoli contratti nazionali a perdere a cui aggiungere il rinvio continuo, con le deroghe, alla contrattazione di secondo livello ove il potere contrattuale dei lavoratori è sempre più esiguo. 
Determinante è stato il ruolo della cosiddetta rivoluzione tecnologica che con la scusa di modernizzare il sistema di relazioni industriale ha portato all'arretramento del potere contrattuale e di acquisto e allo stesso tempo ha alimentato la proliferazione di tipologie contrattuali all'insegna della precarietà. 
Per raggiungere questi obiettivi sono stati necessari interventi legislativi miranti a costruire un sistema di relazioni sindacali a solo vantaggio dei sindacati complici limitando il diritto di sciopero, tagliando ogni agibilità al conflitto, imponendo continui cambi di appalto attraverso i quali si consumano tagli salariali e dei posti di lavoro, perdita di tutele individuali e collettivi. Hanno distrutto colpo dopo colpo le conquiste dei 30 anni "gloriosi" del dopoguerra sempre in nome di quella modernità con la quale hanno ribattezzato i percorsi di restaurazione padronale.
In futuro ci penserà il lavoro agile, stupidamente, visto solo come una nuova modalità di svolgimento della prestazione, presentato come strumento atto a conciliare i tempi di vita e di lavoro quando invece rappresenta un cambiamento rilevante che accresce la dipendenza del lavoratore dalla azienda anche attraverso la connessione digitale 24 ore su 24 e la dilatazione dei tempi di lavoro a discapito di quelli dedicati alla socialità, alla famiglia, allo studio.
Ancora in fieri la nuova rivoluzione tecnologica ma già da tempo scatenata la battaglia ideologica per rendere sempre più precaria la nostra esistenza, distruggere il sistema di tutele fino ad oggi conosciuto affermando una nuova cultura individuale\ista nel nome della performance. La disuguaglianza diventa un valore, nella disuguaglianza si cela la nostra sconfitta culturale e politica.

Federico Giusti – Pisa