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Il potere d’acquisto dei lavoratori è fermo, la crisi è iniziata nel 2007/8 e da quella crisi non siamo ancora usciti. Le statistiche potranno anche essere manipolate e lette con parzialità, i risultati ottenuti con metodi analitici differenti ma alla fine i numeri non ammettono obiezioni.

La crescita zero ha avuto un risultato: aziende e sindacati hanno fatto fronte unico rispetto al Governo, eppure le aziende hanno non poche responsabilità avendo spesso disinvestito in ricerca e modelli produttivi all'insegna della innovazione tecnologica optando invece per la riduzione del costo del lavoro e gli ammortizzatori sociali. È quindi possibile un'alleanza tra lavoratori e padroni per il rilancio dell'economia? Abbiamo forse interessi in comune da difendere?

La storia insegna altro e ogni volta che abbiamo ceduto alle sante alleanze il potere di acquisto e di contrattazione è crollato ai minimi termini, ripercorrere quanto accaduto tra la fine degli anni Settanta e i primi ottanta sarebbe utile per confutare il luogo comune secondo il quale nei momenti di crisi debba prevalere il cosiddetto senso di responsabilità. Mentre i salari perdevano potere di acquisto e il lavoro diventava sempre più precario e insicuro, la forbice sociale ed economica si è allargata e con essa disparità e disuguaglianze sociali. La crisi c'è stata ma non tutti ne hanno subito le ripercussioni, anzi qualcuno esce dall'ultimo decennio decisamente rafforzato.

Gli operai hanno tutto l'interesse a dubitare dei patti con i padroni e del cosiddetto patto per la fabbrica, si va facendo strada infatti il complesso sistema di deroghe al contratto nazionale e quanto rimane dello stesso diventa per la forza lavoro un cavallo di troia come dimostra l'ultimo contratto nazionale delle cooperative sociali con l'impegno sindacale a rivedere, in pejus, le normative in materia di sciopero.

 E proprio dalla crisi dell'ultimo decennio i salari netti hanno perso mediamente 5mila euro, poi si potrà disquisire sulla ragione di questa perdita secca, sicuramente la pressione fiscale è cresciuta e, ad ogni rinnovo, gli aumenti sono stati decisamente irrisori.  Il primo risultato della santa alleanza tra sindacato e padroni è proprio l'offensiva contro il fisco, la richiesta non è quella di salari più alti ma si pensa solo a ridurre la pressione fiscale. Un leit motive caro alle imprese diventa così il cavallo di battaglia sindacale, troppe tasse diventano la causa della depressione salariale.

Un drastico taglio del cuneo fiscale servirebbe anche ai salari sotto 40 mila euro, ma possibile che la soluzione dei bassi salari sia solo quella di ridurre le tasse e non di aumentarne gli importi? E la minore tassazione da parte statale non comporterà la riduzione delle spese per istruzioni e sanità, per il welfare state? Ma non dubitate, se tagli sociali ci saranno i sindacati e le aziende potranno compensarli con la previdenza e la sanità integrativa, è questa alla fine la merce di scambio anche se a rimetterci saranno sempre e solo i lavoratori con lo scambio diseguale tra aumenti salariali dignitosi sostituiti dal welfare aziendale.

Su un punto concordiamo con l’Isrf Lab della Cgil (https://www.fisac-cgil.it/83520/isrf-lab-i-numeri-parlano-chiaro-servono-investimenti) quando si critica la dinamica al ribasso dei salari italiani che restano indietro rispetto allo stesso codice Ipca (https://www.rivaluta.it/ipca.htm) con cui vengono calcolati gli aumenti contrattuali, codice che poi rappresenta l' omologazione della dinamica salariale nei paesi Ue al rispetto delle medesime regole. 

I contratti degli ultimi dieci\dodici anni non sono serviti a tutelare i salari dall’inflazione, sono la causa della perdita di potere di acquisto, firmare accordi a perdere non ha aiutato le imprese a innovarsi, non ha salvato i posti di lavoro, non permette oggi la ripresa della dinamica salariale. In Italia si cresce poco o nulla, il decennio trascorso ha accresciuto i ritardi dell'Italia rispetto alla media Ue.

Esiste una via di uscita?

A nostro avviso no, sicuramente la ripresa dei salari è legata agli andamenti economici e agli investimenti statali, non basta tagliare le tasse e il costo del lavoro quando non crei ricchezza innovando e costruendo nuova occupazione. Non bastano sussidi per la ripresa della domanda, non può esserci ancora a lungo dinamiche salariali che demandino le decisioni rilevanti alla contrattazione di secondo livello, la scommessa per padroni e sindacato è quella di ridurre il cuneo fiscale dimenticando che da questa riduzione a guadagnarci saranno soprattutto le imprese mentre le classi sociali meno abbienti pagheranno in termine di aumento dei costi relativi alla sanità e ai servizi sociali e della istruzione.

Al contrario la soluzione dei soloni in Cgil è quella di sperare nella riduzione del cuneo fiscale per far crescere i salari e da lì sperare in una nuova era keynesiana per far ripartire consumi e investimenti. 

Nel recente passato riducendo le tasse alle imprese e stravolgendo a loro uso e consumo il diritto del lavoro non si sono ottenuti grandi risultati, forse la storia non è stata fonte di insegnamento se torniamo a proporre soluzioni a misura padronale.

Federico Giusti – Redazione pisana