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«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente»

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Fiscal Compact: la stretta finale sulle condizioni del proletariato europeo

fiscal

Il 2 marzo 2012 è stato sottoscritto da tutti i 17 paesi facenti parte dell’eurozona (dall’1 gennaio 2014 si è aggiunta la Lettonia, che lo aveva già firmato), il Fiscal Compact, tra il silenzio dei media in Italia. È stato anche firmato da 7 altri membri dell’Unione Europea non appartenenti all’eurozona, cioè Bulgaria, Danimarca, Lituania, Ungheria, Polonia, Romania, Svezia. Non è stato firmato da Gran Bretagna e Repubblica Ceca. Il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione Europea, meglio noto come Fiscal Compact, vincola ogni Stato firmatario al pareggio di bilancio (cioè il saldo nominale al netto delle misure una tantum e del ciclo economico) o, in caso di disavanzo strutturale, al rispetto di determinati e stringenti percorsi di rientro.

Il vincolo del pareggio di bilancio è stato inserito persino nella Costituzione italiana, all’interno dell’articolo 81 nel maggio 2012, con l’approvazione della legge costituzionale 1/2012 da parte del parlamento. Da allora la Commissione Europea che già in virtù del trattato di Lisbona (costituzione europea) poteva decidere pressochè tutto in materia di bilancio dei paesi aderenti all’Unione europea, ha avuto un’ulteriore via libera da parte delle istituzioni nazionali borghesi per poter spulciare i conti pubblici dell’Italia e sollecitare “riforme e aggiustamenti”, a cominciare dalle continue imposizioni di manovre correttive. Ciò comporta quindi un’ulteriore cessione di potere decisionale nei confronti dell’Unione Europea.

Ma il Fiscal Compact non implica solamente il pareggio di bilancio, ma soprattutto che il rapporto tra debito pubblico e Pil si assesti da qui ai prossimi 20 anni non sopra il 60%. Implica inoltre l’obbligo di mantenere non oltre il 3 per cento il rapporto tra deficit e PIL, (già previsto tra l’altro dal trattato di Maastricht) e il vincolo dello 0,5 di deficit “strutturale”, quindi non legato a emergenze, rispetto al Pil. L’ Italia il cui rapporto debito pubblico/Pil è oltre il 135 per cento, dovrà quindi tagliare ben 50 miliardi l’anno di spesa pubblica per i prossimi 20 anni, per un totale di circa 1000 miliardi. È del tutto evidente che se il Pil continuerà a diminuire o quantomeno a ristagnare, (visto il suo rapporto diretto col debito pubblico in quella che è una delle peggiori perversioni borghesi) queste cifre andranno riviste al rialzo, e stante il pareggio di bilancio, la tassazione alle stelle sui lavoratori,

la delocalizzazione delle imprese e l’impossibilità per lo stato di emettere moneta a costo zero (con conseguente deflazione), la spirale di recessione sarà perenne, nonostante il capitale cerchi di massimizzare sempre più i propri profitti attraverso lo sfruttamento sempre più intensivo del lavoro e delle tecnologie e col soccorso dello stato che detassa a più non posso i profitti di banche ed imprese. Com’è altrettanto evidente che questi 50 miliardi annui verranno sottratti a sanità, istruzione, pensioni, fondi per disabili, calamità naturali e tutto ciò che concerne la spesa sociale.

L’Italia è da anni rientrata ben sotto la soglia del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil. Occorre però aggiungere, che le norme introdotte dal Fiscal Compact inaspriscono l’austerità per il proletariato, ma questi dettami sono sanciti in pratica dal Trattato di Maastricht, entrato in vigore l’1 novembre 1993, e dal Patto di stabilità e crescita, sottoscritto nel 1997. Nel Trattato di Maastricht, fra le altre cose, sono contenuti i cinque criteri che ciascun paese avrebbe dovuto soddisfare per poter adottare l’euro, fra cui appunto un rapporto fra deficit e il prodotto interno lordo non superiore al 3 per cento e un rapporto fra debito complessivo e PIL non superiore al 60 per cento.

Col Patto di stabilità l’Unione europea si dotò invece degli strumenti per inviare avvertimenti e applicare sanzioni agli Stati che non avessero rispettato i vincoli imposti da Maastricht. Il vincolo del 3 per cento concorrerà a far sì che lo stato borghese debba spremere sempre più lavoratori e piccoli risparmiatori con imposte dirette ed indirette e tagliare ulteriormente quel poco che resta dello stato sociale.

Persino l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, disse che il Fiscal compact “così com’è sarebbe terribile per l’Italia”. Ma una sua piccola riforma non cambierebbe certo le cose. Lo stesso Renzi lo definì qualche anno fa “oggettivamente anacronistico”, nonostante abbia fatto di tutto perché il suo governo lo rispettasse. Beppe Grillo nel marzo 2014 scrisse sul suo blog che “il Movimento 5 Stelle avrebbe cancellato il Fiscal Compact, (che in mancanza di una fortissima crescita taglierebbe la spesa pubblica dai 40 ai 50 miliardi all’anno per vent’anni) salvo poi fare l’esatto opposto una volta andato al governo, smentendo anche questa promessa elettorale. Anche Lega e Fratelli d’Italia, si sono sempre detti contrari al fiscal compact a parole, ma si sono dimostrati favorevoli nei fatti.

È sempre più evidente come l’Europa dei capitali sia insostenibile per il proletariato europeo, come del resto lo è il capitalismo, di cui questi consessi continentali altro non sono che suoi strumenti di oppressione per le masse popolari. I Proletari devono unirsi in una lotta senza frontiere che possa liberarli dalle catene strette ai loro polsi dal capitalismo e da tutti i suoi strumenti di dominio, organismi nazionali ed internazionali annessi. Solo così potranno riappropriarsi delle proprie esistenze, senza dover essere più alle dipendenze di padroni e governanti borghesi.

Angelo Fontanella

 

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