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Il romanzo di Tullio Giordana

Il romanzo di Tullio Giordana

“QUELLA SERA A MILANO ERA CALDO...” (da LOTTA CONTINUA, aprile 2012)

A proposito del film “Romanzo di una strage”

 

Prima ancora di uscire nelle sale cinematografiche, il film di Giordana aveva già suscitato un ampio confronto, con toni anche aspramente polemici, a proposito dei suoi contenuti, della sua attinenza alla realtà, prima ancora che sulla qualità filmica. Non poteva che essere così.

“Romanzo di una strage” è un film che intende ricostruire le vicende che, partendo dalla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969), giungono all'omicidio di Luigi Calabresi (17 maggio 1972).

Il titolo è una citazione di un famoso articolo di Pier Paolo Pasolini comparso su Corriere della Sera nel novembre del 1974 e in seguito incluso nella raccolta “Scritti corsari” con il titolo “Romanzo delle stragi”. Quell'articolo iniziava con “Io so... (ma non ho le prove)”; ora quella certezza, quel “coraggio della verità” di Pasolini è certamente lontano dalla trama del film di Giordana, dove tutto o quasi sembra sfumare in una mancanza di certezze. In fondo quando tutto accade “fuori dalla scena”, vuol dire che potrebbe accadere “tutto e il contrario di tutto”.

Pinelli cade per “malore attivo”, perché si è “tuffato”, o perché ha ricevuto una spinta?

La bomba (ma potrebbero essere “due” le bombe) alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana, chi l'ha messa?

Com'è morto Feltrinelli su quel traliccio di Segrate? Un “incidente sul lavoro” o un omicidio?

L'agente Annarumma muore a causa di un incidente o perché vittima dei manifestanti?

Nel “Romanzo di una strage” questi fatti cruciali del periodo accadono fuori scena, restano avvolti nel dubbio, oscillanti.

Il film di Giordana è “liberamente ispirato” al libro di Paolo Cucchiarelli, “Il segreto di piazza Fontana”, un testo discusso e piuttosto discutibile (Adriano Sofri l'ha contestato in modo puntuale in “43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film”, un ebook gratuito, in formato pdf).

Il libro di Cucchiarelli è incentrato sulla tesi della “doppia bomba”; Valpreda avrebbe effettivamente messo nella banca una bomba-petardo a basso potenziale con un timer regolato su un orario successivo alla chiusura della Banca Nazionale dell'Agricoltura.

Su questa prima bomba “anarchica” se ne sarebbe sovrapposta una seconda collocata dalla destra eversiva (la cellula di Ordine Nuovo veneto) con l'intenzione di fare una strage da addossare agli anarchici. Va detto che fra il libro e il film ci sono parecchie e significative differenze e la stessa tesi della “doppia bomba” nel film trova una formulazione diversa rispetto al libro.

Indubbiamente un “romanzo” non è un documentario ed è logico che questa diversa modalità narrativa comporti un distacco dallo svolgimento effettivo dei fatti, uno scarto fra gli avvenimenti messi in scena e il loro svolgimento reale.

Nel caso del film di Giordana siamo in presenza di un periodo e di eventi troppo importanti per non interrogarci su quale comprensione e atteggiamento si crea nello spettatore che non conosce i fatti. L'argomento ha un significato tale che impone un giudizio che sappia andare oltre la valutazione della qualità filmica (che non sapremmo esprimere), che entri nel merito della ricostruzione storica. Quella strage “per eccellenza” non è un affare che riguardi solo gli storici, ci coinvolge direttamente perché è un pezzo di alto significato della nostra lunga storia per la liberazione. Perché, “chi controlla il passato, controlla il presente”, perché il punto di vista della memoria è parte della ricostruzione di un'identità collettiva.

Il peso di quella strage, che inaugura in modo dirompente la “strategia della tensione”, è dimostrato dall'ampio dibattito polemico che ha accolto il film; quelle bombe, il loro significato, sono un argomento ancora vivo, scottante, che spinge a schierarsi.

“Romanzo di una strage” incolla pezzi di una storia che si sviluppa in un periodo di quasi tre anni. Il film sovrappone il ceto politico dominante, i servizi segreti, poliziotti, carabinieri, anarchici, la Grecia dei colonnelli, la destra eversiva collegata ai servizi segreti (Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale), magistrati, complotti e depistaggi. Molto, forse troppo, perché lo spettatore di oggi possa comprendere la dinamica complessiva della “strategia della tensione” avviata con le bombe del 12 dicembre e messa in atto dalla combinazione fra apparati dello Stato, servizi segreti con l'apporto della manovalanza neofascista.

Nel complesso ne risulta un mosaico da cui mancano non pochi tasselli significativi che pure la controinformazione di movimento, l'azione d'inchiesta giornalistica, le risultanze dei procedimenti penali hanno portato in luce.

Però il film non convince non tanto per quel che dice e fa vedere, su cui ci sarebbero non poche riserve da rilevare, quanto soprattutto per quello che non c'è, per la mancanza quasi totale, di quello che ha dato significato agli anni rappresentati dal film di Giordana.

Infatti l'Italia di quegli anni non c'è (se non in scene poco rilevanti): le fabbriche, le piazze, le scuole, i quartieri stanno fuori dalle inquadrature.

L'Italia a cavallo fra gli anni '60 e'70 non è stata solamente un teatro di bombe, di stragismo e di tentativi di colpi di stato della destra e di settori della Nato, era anche, soprattutto, uno spazio di conflitti sociali radicali e le stragi intendevano rispondere prima di tutto a questo sommovimento politico-sociale. Che senso avrebbero quegli intrighi, quelle bombe senza i grandi movimenti che hanno messo in crisi quelle stanze del potere rappresentate dal film?

In una narrazione che voglia mettere in scena un periodo di ricchezza ed effervescenza, senza il contesto storico, senza l'irrompere delle lotte operaie che hanno segnato tutto il 1969 e in particolare l'autunno, è inevitabile l'aggrovigliarsi nelle infinite discussioni su timer e micce, sui minuti, su complotto si- complotto no, sui depistaggi che pure ci sono stati.

Non è questo che ci interessa; quelle bombe furono un attacco diretto all'emergere di un soggetto collettivo che rubava la scena allo spettacolo della politica dominante.

Fu questa consapevolezza che ci consentì di cogliere fin da subito il significato reale delle bombe di piazza Fontana: l'attacco alla coscienza e all'insorgenza operaia che si poneva come il centro di tutto l'ampio fronte di lotta di quegli anni. Per questo abbiamo riempito le strade, i muri, i momenti collettivi al grido di “la strage è di Stato”.

Il film non manca solamente di tasselli importanti e accertati, costruisce personaggi come quella dell'allora Ministro degli esteri, Aldo Moro, del commissario Luigi Calabresi e dello stesso Giuseppe Pinelli. Tre figure che subiscono un'opera di “santificazione” (come sottolinea Piero Scaramucci), certamente impropria. Il ruolo della Democrazia Cristiana nei suoi quattro decenni di centralità nel sistema di potere italiano è troppo conosciuto perché debba essere qui sottolineato e spiegato; lo stesso Pinelli, militante anarchico conseguente, non avrebbe certo voluto essere assunto a “santo”. La sentenza del giudice Gerardo D'Ambrosio decretò che il commissario Calabresi non era presente nel suo ufficio al momento della “caduta” di Pinelli. Poteva non conoscere le modalità con cui avvenivano gli interrogatori dei suoi uomini? Lo ricordiamo come colui che fece incarcerare, senza prove, per mesi, decine di anarchici risultati poi innocenti, sottoponendo Pinelli ad un interrogatorio illegale che si concluse con la sua morte.

Calabresi, davanti ai giornalisti, avalla le dichiarazioni di Marcello Guida, il “fascista questor” (non per nulla Guida fu direttore del confino di Ventotene durante il ventennio fascista e in seguito, come molti altri, riciclato nelle istituzioni repubblicane), il suo comportamento non è diverso da quello dei suoi superiori, come viene rappresentato nel film.

Lello Valitutti, l'unico testimone di quella notte non appartenente agli apparati della forza pubblica, presente in quel corridoio dove poteva osservare chi entrava e chi usciva dalla stanza dove Pinelli era sotto torchio, da 42 anni sostiene che Calabresi non è mai uscito da quella stanza. Commentando il film di Giordana, Corrado Stajano, testimone i quei giorni, scrive sul Corriere della Sera: “ A colpire, in quella notte difficile da dimenticare, era la percezione che quegli uomini dello Stato non mostrassero neppure un moto di amarezza e di dolore per la morte di un uomo entrato da libero cittadino in Questura e uscito morto. Erano responsabili della sua vita: cinque uomini, in una piccola stanza, non riuscirono a impedirgli di buttarsi dalla finestra lasciata aperta? Calabresi è stato giudicato innocente dalla magistratura. Ma esiste soltanto la responsabilità penale?”

Quel clima di “assenza di dolore per la morte di un uomo” è la stessa percezione che riferì la giornalista Camilla Cederna, un'altra testimone del tempo, autrice del celebre libro “ Pinelli. Una finestra sulla strage”.

Ben diversamente, nel “Romanzo di una strage”, è costruita la figura di Valpreda e degli anarchici. L'innocente Valpreda, dopo Pinelli, è colui che più ha pagato in termini di carcerazione e di emarginazione. Nel film è “l'eroe negativo”, contrapposto agli “eroi buoni” (Moro, Calabresi e Pinelli), viene rappresentato come un cretino, un isterico esaltato, una caricatura; evidentemente gli sceneggiatori non hanno ritenuto opportuno approfondire il personaggio.

Non siamo dell'idea che sugli “anni Settanta” possa formarsi una memoria condivisa, non lo pensiamo e neppure lo auspichiamo. Quegli anni, quel “lungo '68” durato 13 anni, sono stati segnati da forti conflitti sociali, dal formarsi di un soggetto collettivo che si è scontrato contro un sistema politico, economico e culturale che, uscitone vincente, ha imposto le forme di sfruttamento e di rapporti sociali contro cui oggi continuiamo a combattere.

Se la storia e la memoria sono terreni di conflitto, gli anni '70 lo sono in modo estremo, un arco di tempo che per la nostra controparte va distorto, revisionato, reso caricatura se non azzerato.

“Romanzo di una strage”, tutto sommato, è dentro questo meccanismo, non esente, tra l'altro, della teoria degli opposti estremismi, di cui Cucchiarelli è maestro.

D'altra parte il cinema è finzione e non realtà, “la vita non è un film”.

 

 

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