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Mimmo Franzinelli, Alessandro Giacone, 1960, L’Italia sull’orlo della guerra civile

 Milano, Mondadori, 2020, pp. 294, € 22.00. 

Una colonna di fumo che si alza da una camionetta della Celere, aste e pietre sul pavimento, folla in agitazione. Questa è l’immagine che immediatamente la mente associa a Tambroni, cioè lo scenario dei disordini a Genova, contro il VI Congresso nazionale dell’Msi. Più difficile è aver nitida la fisionomia di colui che, principalmente a causa di questi disordini, vide l’eclissi delle proprie fortune politiche.

Qui viene in soccorso questa monografia, corposa, articolata ed avvincente alla lettura, ad opera di quattro, autorevoli, mani. Quel luglio 1960 viene, infatti, ben inquadrato grazie ad una minuziosa ricostruzione dei trascorsi storici che ne consentirono lo sviluppo degli eventi. Una ricostruzione fondata anche sulle biografie dei protagonisti, in primis, chiaramente, di Fernando Tambroni, l’avvocato di provincia, convinto militante Ppi alle prime sue battute, ma quando, nel 1926, le camicie nere vanno con carta e penna per fargli autografare l’abiura, non ci pensa due volte, sempre che ci potesse ripensare. Circostanza tanto diffusa al momento quanto ragione di ricatto e rinfacciamento a Regime crollato.

Il volume si presenta fondamentalmente strutturato in due parti: il prima ed il durante, con in coda gli esiti immediati ed i destini dei protagonisti. La prima sezione è infatti pressoché interamente dedicata al magheggio democristiano, cioè al carrierismo di quella classe politica che avanza dall’immediato Secondo dopoguerra per tutti gli anni del centrismo. Qui è preponderante la funzione della documentazione precedentemente inedita, in particolare quell’Archivio personale che Andreotti dichiarava sempre di conservare, accanto al suo senso dell’umorismo. È in questa temperie che si fa avanti sgomitando Tambroni. In merito al suo collocamento all’interno della Dc, abbiamo diverse impressioni ma, in linea di massima, è considerato su posizioni di sinistra. Era, in tutta evidenza, un ondivago che si orientava a seconda delle situazioni in corso, preso dalla sua personale scalata. Tutto ciò fino alla nomina a Presidente del Consiglio.

Qui gli autori formulano, in base alla documentazione consultata, considerazioni che se non sono inedite non avevano ancora trovato adeguata sottolineatura altrove. Da Capo del Governo, Tambroni assume un atteggiamento che si può definire populista, con una demagogia, magari di matrice giolittiana, che lo porta a tentare d’istaurare un rapporto diretto con le masse, attraverso l’adozione di misure di facile consenso popolare. In questo intento lo coadiuvava su tutti il Presidente Eni Enrico Mattei.

Un populismo che potesse disinnescare le rivendicazioni delle sinistre ma da solo insufficiente per cui si rendevano comunque necessari gli strumenti repressivi ed il ricorso agli istinti reazionari presenti nel Paese. In base a ciò, l’ottenimento dell’appoggio dell’Msi, forza politica emarginata nel consesso civile e politico italiano ma pur sempre presente e alla quale affidarsi con fiducia nelle trame atte a minare la democrazia. E questo è un altro punto che, esplicitamente o meno, emerge comunque dalla lettura della pubblicazione.

Veniamo dunque allo svolgersi dei fatti. L’ingresso di una forza palesemente erede del Ventennio, a quindici anni appena dalla Liberazione dal nazifascismo, non poteva non sortire effetti traumatici, considerando che, almeno dal punto di vista formale, escluso quello missino, tutti i partiti parlamentari si percepivano come eredi della Resistenza. I malumori iniziano nei partiti e in quella stessa Dc in cui Tambroni non era del tutto ben visto già di suo.

Le forze di sinistra chiaramente protestano ma c’è un fatto destinato a far precipitare gli eventi e, com’è noto, si tratta del Congresso missino nella città Medaglia doro per la Resistenza di Genova. A tal proposito c’è una pubblicistica diffusa che, più o meno in chiave vittimistica, reputa quell’assise come un tentativo da parte dell’Msi di inserirsi nella vita democratica del Paese, rimasto incompreso. Franzinelli e Giacone ci dimostrano l’esatto opposto, sfogliando “Il Secolo d’Italia” nei giorni della fase preparatoria e della vigilia congressuale. Dai toni, dai presupposti scritti e dalle schede biografiche dei delegati riportate, emergono inconfutabilmente la rivendicazione della discendenza dall’esperienza repubblichina, così come i propositi revanscisti dell’evento. La provocazione non poteva cadere nel silenzio e nel vuoto, e qui vien fuori l’elemento nuovo rispetto agli anni passati. A Genova si assiste ad una sollevazione di fatto spontanea, non guidata dai partiti e dal mondo associativo e sindacale ad essi legato (la regia di Mosca è chiaramente un’illazione destinata a lasciare il tempo che aveva trovato), che si scoprirono un po’ a spalleggiare gli insorti, un po’ a temerne le evoluzioni. Il Pci non intendeva certo buttare all’aria quindici e passa anni trascorsi ad assicurare la controparte circa l’abbandono dei propositi rivoluzionari; il Psi invece, essendo per tradizione disomogeneo, dimostrava meno timori e più aperture. Tuttavia, i gruppi dirigenti di ambedue si troveranno spostati un po’ più a sinistra dai moti popolari, dopo anni di stagnazione.

Una sollevazione sì spontanea ma, come si sarebbe poi detto, autorganizzata e ben organizzata in termini di guerriglia urbana, specialmente con la capacità di neutralizzare le cariche della polizia, ove gli agenti venivano attirati in trappole nei vicoli e circondati dai manifestanti.

Una strategia che si dimostra vincente, con l’Msi costretto a battere ritirata, e con esso le forze dell’ordine. La reazione avrà modo di rifarsi  e vendicarsi a stretto giro, con i fatti di Reggio Emilia, di porta S. Paolo a Roma e in Sicilia (la mobilitazione aveva attraversato il Paese). Si è stati però dinanzi ad una vittoria popolare ed antifascista, guidata dalla classe operaia, dopo anni di repressione subita, con oltre ottanta morti freddati dal Dopoguerra in manifestazioni ed agitazioni per la terra dalle forze dell’ordine, restate sostanzialmente impunite. Qui gli autori si soffermano infatti su un aspetto che desta curiosità: i manifestanti si scagliano contro la Polizia mentre con i Carabinieri si verificano addirittura momenti di fraternizzazione, subito segnalati e redarguiti dalle autorità. Evidentemente nell’immaginario popolare era alla Celere che si associava maggiormente la repressione.   

Il tutto era avvenuto con un insolito protagonismo delle masse giovanili non inquadrate nelle organizzazioni tradizionali, in quella Genova che, del resto, aveva visto nascere una delle prime milizie antifasciste, i Figli di nessuno, formatisi nel maggio 1921, in anticipo sugli Arditi del popolo.

C’era tutto un  mondo estraneo quindi alla vita di partito che si manifestava in tutta la sua irruenza. Sono chiamati le maglie a righe, in base al capo di moda tra i giovani in quell’estate che dava il via ai favolosi anni Sessanta. Si muovono indicativamente in moto e difatti sono i teddy boys, teds in abbreviazione. Sono antifascisti militanti ma in Gran Bretagna stanno, a dispetto della musica ascoltata, attestandosi su posizioni conservatrici e razziste, in contrasto con i mods. Il libro, non trattando di costume o di sottoculture non vi si sofferma, ma è di fatto la prima tendenza giovanile che si attesta in Italia. Stavano quindi nascendo i giovani, come categoria a sé, con il conflitto generazionale che si paleserà, sebbene inizialmente addomesticato, con il beat.

Silvio Antonini