Il presidente di Confindustria Bonomi dalle pagine del Sole 24 Ore lancia un messaggio distintivo alla Cgil asserendo «Con i sindacati lavoriamo insieme per agganciare le transizioni, l’anno prossimo banco di prova per i rinnovi dei contratti».
Non sappiamo ancora se tale invito sarà raccolto ma stando alla esperienza maturata in questi anni siamo certi che le parti datoriali non tarderanno ad incontrarsi per cercare una intesa da riportare anche ai tavoli del Governo.
Il 2024 sarà un anno importante per il rinnovo di numerosi contratti già scaduti nel settore privato (ma anche per i 3,2 milioni di dipendenti della PA). L’obiettivo padronale è la revisione dei contratti nazionali in essere per dare impulso alla contrattazione di secondo livello, non si limiteranno insomma a discutere della parte economica tanto da rivendicare la necessità di “un contratto di lavoro moderno, inclusivo e sostenibile”. E la modernità invocata fa rima con la produttività in base alla quale determinare le prossime dinamiche salariali e contrattuali.
Nel linguaggio padronale sappiamo cosa significhi un contratto moderno e sostenibile, ossia un contratto che preveda aumenti al di sotto del potere di acquisto e con ampio ricorso alla flessibilità attraverso sistematiche deroghe rinviate alla contrattazione di secondo livello in materia di orari, produttività, ritmi e tempi di lavoro. E la tassazione al 5% dei premi di secondo livello improntati alla produttività, stipulati con i sindacati rappresentativi, è stata una soluzione condivisa tra parti sociali e datoriali e benevolmente accolta dagli ultimi Governi a prescindere dal loro colore politico.
Suona singolare, tuttavia, che Confindustria parli di un patto di equità sociale da fare noi e il sindacato, siamo davanti alla riedizione di una intesa concertativa che rafforzi il monopolio della contrattazione eliminando sul nascere ogni opportunità dei sindacati di base e conflittuali di conquistare accordi di settore e di sito avanzati rispetto ai CCNL siglati dai sindacati cosiddetti rappresentativi.
È alquanto singolare che si parli di lotta alle finte cooperative quando il sistema degli appalti e dei subappalti si sorregge in molti casi sull’applicazione di contratti al ribasso con sotto inquadramenti e sostanziale riduzione del potere di acquisto della forza lavoro.
Hanno in mente la riduzione dei contratti nel settore privato non per porre fine a quelli pirata ma per eliminare situazioni di miglior favore e per questo chiedono alla Cgil un patto “per il bene del paese” che ci riporta indietro a 40 anni e passa or sono con la politica dei sacrifici, un linguaggio per altro tipico del modello concertativo che poi è la base ideologica e culturale sulla quale costruire da una parte i monopoli della contrattazione e dall’altra la piena agibilità di sindacati complici che potranno rafforzare previdenza e sanità integrative come soluzione mentre si andrà riducendo il welfare universale con tagli alle pensioni pubbliche, alla scuola e alla educazione.
Bonomi giudica la manovra di Bilancio come una misura ragionevole perché ha confermato gli interventi sul cuneo fiscale a sostegno delle famiglie a basso reddito. Ma al contempo ne evidenzia un limite, una Manovra che non agisce sul versante dell’offerta e quindi chiede di indirizzare sempre più risorse agli sgravi fiscali e all’imprese sapendo che a pagare i loro investimenti sarà la fiscalità generale con tagli al welfare.
Stimolare gli investimenti significa andare verso un sistema di relazioni sindacali costruito sull’incremento della produttività per poi ergersi a paladini dell’equità distributiva in un paese che negli ultimi 40 anni ha visto diminuire i salari, crollare il potere di acquisto e di contrattazione aumentando le disuguaglianze economiche e sociali.
Le dichiarazioni confindustriali evitano comunque di affrontare il nodo saliente ossia la crisi del sistema italiano, la sua scarsa produttività e il rallentamento dell’economia iniziato quasi 30 anni or sono. E le responsabilità padronali nella crisi del modello italico sono volutamente taciute, gli scarsi investimenti nella ricerca e nei processi produttivi dovuti anche al progressivo ridursi dei margini di profitto mentre si procedeva tra delocalizzazioni produttive, privatizzazioni, riduzioni del costo del lavoro e aiuti statali.
La narrazione padronale si avvale di quelli che ormai sono luoghi comuni avallati anche dalla subalternità sindacale alle soluzioni prospettate dal nemico di classe: la eccessiva tassazione, l’elevato costo del lavoro (smentita dal crollo dei salari e del loro potere di acquisto), l’invadenza sindacale (ma il potere di contrattazione è andato via via diminuendo e innumerevoli materie, nel pubblico soprattutto ma anche nel settore privato, oggi non sono più oggetto di trattativa), il limitato accesso al credito per le piccole e medie imprese (non una parola viene spesa sulla trasformazione del sistema bancario).
La produttività del lavoro in Italia cala negli ultimi 27 anni mentre aumenta nei paesi a capitalismo avanzato e nazioni come la Germania nell’ultimo quarto di secolo hanno iniziato a correre, almeno fino a quest’anno, a una velocità per noi irraggiungibile. E dopo la crisi del 2007\8 i ritardi italici si sono accentuati rispetto al Sud Est asiatico e anche alle nazioni europee, una crescita assai contenuta, la debacle salariale e le crescenti spinte a contrarre il debito facendo cassa sulle future pensioni o non investendo nella Pubblica amministrazione con evidenti difficoltà palesate negli ultimi mesi con gli obiettivi del PNRR.
Potremmo dilungarci sulle cause della perdita di produttività dell’Italia con dati statistici e analitici, sia sufficiente invece focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti ossia:
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- La diminuzione delle ore lavorate a discapito del valore aggiunto ossia delle attività di impresa. Molte aziende non sono risultate produttive al cospetto dei competitor europei, i management hanno operato scelte discutibili e le prospettive future in molti settori non risultano certo rosee. Pesa quindi la crisi del settore manifatturiero e industriale in generale che ha mostrato innumerevoli criticità in molti settori un tempo trainanti.
- Il dilagare dei contratti part time che riguardano soprattutto la popolazione femminile.
- Il divario tra Nord e Sud.
- I ritardi accumulati nel settore dei servizi, dirimente per la economia capitalista in sintonia con la solidità di quello industriale, nei quali si è puntato quasi sempre alla riduzione del costo del lavoro attraverso processi di delocalizzazione e nel variegato sistema degli appalti e dei subappalti ove quello che conta sono i bassi salari e condizioni lavorative di mero sfruttamento. Per alcuni economisti il futuro dei paesi a capitalismo avanzato dipende dallo sviluppo del settore dei servizi che in Italia, come in altri paesi europei, è stato assai minore di quanto accaduto negli Usa e nei paesi del Sud Est asiatico dove, tuttavia, le multinazionali occidentali hanno per altro delocalizzato innumerevoli produzioni.
- Il mancato sviluppo di nuove tecnologie produttive e anche il depotenziamento della ricerca pubblica insieme alla scarsa capacità di ricollocare la produzione in settori emergenti (il ricorso agli ammortizzatori sociali è stato il prevalente intervento pubblico in economia senza atti di indirizzo e controllo).
- La scarsa propensione del capitalismo italiano, soprattutto nelle piccole e medie imprese eccezion fatta per qualche distretto industriale, ai processi innovativi e di formazione sperando che i costi venissero interamente finanziati dallo Stato (e questa richiesta è oggi nuovamente avanzata dai settori industriale che invocano una manovra finanziaria in primavera rivolta alla crescita).
- La scarsa produttività del sistema italiano ha prodotto la contrazione dei salari che negli ultimi 30 anni risultano, al cospetto dei paesi Ue, in caduta libera a conferma che le politiche concertative non hanno prodotto alcun risultato apprezzabile per la forza lavoro.
- La crisi italiana coincide con l’avvento dei parametri di Maastricht e l’ingresso nell’euro, un argomento che andrebbe comunque affrontato con ben altre considerazioni e studi analitici ma siffatta affermazione è desumibile comunque dai dati statistici.
Quali sono allora le ricette padronali? Lo capiamo leggendo una analisi del Centro Studi di Confindustria:
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- sostenere la competitività delle imprese su due fronti;
- supportando gli investimenti privati, necessari per affrontare le sfide della twin transition, digitale e green (Industria 5.0), e la struttura finanziaria delle imprese fiaccate dalla stretta monetaria;
- salvaguardare i settori industriali a maggiore intensità energetica, più colpiti dai rincari e accelerarne sulla transizione;
- supportare il potere di acquisto delle famiglie a basso reddito;
- taglio del cuneo contributivo.
E per chiudere non possiamo che analizzare un altro tema rilevante ossia l’orario di lavoro. Nel nuovo CCNL dei bancari viene applicata la riduzione dell’orario di lavoro passando dalle attuali 37,5 ore a 37, a partire da luglio 2024. E se questa riduzione sarà a parità di salario, come sembra, avrà delle merci di scambio inaccettabili come la flessibilità oraria, la intensificazione della produttività per favorire un sistema integrato con la Ue al fine di accedere a fondi comunitari. Nel caso del nuovo Ccnl bancari si parla di un sistema innovativo con la ridistribuzione della produttività attraverso forme di partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori alla gestione delle imprese.
Detto in altri termini siamo dinanzi a un sindacato in perfetta armonia e sintonia con la parte datoriale, attento agli utili di impresa e all’accrescimento della produttività che poi sarà il parametro con cui andranno a misurare gli incrementi salariali nella prossima stagione contrattuale.
Federico Giusti
L’economia italiana torna alla bassa crescita? — autunno 2023 (confindustria.it)