La rivoluzione è un’ideologia che ha trovato delle baionette. (N. Bonaparte)
I fuochi della rivolta si sono, almeno momentaneamente, sopiti. Con questo articolo cerchiamo di comprendere che cosa i sei giorni di rivolta hanno determinato e quali scenari si vanno delineando. L’articolo si compone di tre interviste rilasciate da attori sociali, già ascoltati in precedenza, che in virtù della loro militanza politica possono vantare un qualche legame con il “popolo dei quartieri”. La nostra interazione con le interviste è stata minima ripromettendoci, in un successivo articolo, di tentare una lettura politica di quanto andato in scena. Una lettura che, senza una base empirica, diventa puro esercizio retorico. “Solo chi fa inchiesta, ha diritto di parola” e a partire da Mao, ma si potrebbe aggiungere tranquillamente da tutta la storia dello “operaismo”, abbiamo cercato in tutti i nostri articoli di mantenere questa “linea di condotta”.
Diamo pertanto, senza fronzoli di troppo, la parola a M. R., operaio precario dell’edilizia attivo nel Collectif Chomeurs Precaries.
Che percezione c’è nei “quartieri” a Marsiglia dopo la rivolta?
Allora, in linea di massima, c’è un senso di soddisfazione abbastanza generalizzata. Questo è ampiamente comprensibile perché, almeno per sei giorni, i “quartieri” sono stati in grado di riversare, e con gli interessi, ciò che abitualmente subiscono. Questo è un fatto che puoi facilmente constatare attraversando una qualunque zona ghetto. La polizia, almeno per il momento, sta tenendo un profilo basso il che rafforza l’orgoglio della banlieue anche se questa calma, più che essere la ratifica di un mutamento dei rapporti di forza, appare come la classica calma che precede la tempesta. Questo è il timore che cogli se esci dalle fasce giovanili. Mentre i petit sono decisamente esaltati perché ritengono di aver vinto, gli altri, che sono passati più volte per l’inferno pensano che le ricadute repressive potrebbero essere molto pesanti.
Ma questo significa che nei “quartieri” vi è una rottura interna?
No, questo no diciamo che, piuttosto, mentre i più giovani focalizzano lo sguardo sull’immediato, gli altri cercano anche di pensare a cosa accadrà a breve. Questa non è una cosa sbagliata ma che rimanda, per quanto magari non esplicitata in maniera chiara, a una visione e consapevolezza politica che ha più di una ragione di essere. In qualche modo molti nei “quartieri” si chiedono: “Adesso cosa facciamo, adesso cosa succede?” Credo che la sintesi esatta di quanto è accaduto possa sintetizzarsi così: una vittoria militare a fronte di una sostanziale debolezza politica. Il che non è proprio una novità, a fronte di una capacità militare e volontà di combattimento che non trovi da nessuna altra parte, ti ritrovi sempre dentro una difficoltà a trasformare in forza permanente, come esercizio di contro potere effettivo, tutto ciò che è stato messo in campo nella battaglia di strada.
Questo vuol dire che la rivolta, almeno sul piano organizzativo, ha lasciato tutto come prima?
Non è facile dare una risposta a questa domanda. Non lo è perché l’internità politica, anche la nostra per carità, a tutto quello che è successo è stata veramente minima per cui quello che possiamo dire con onestà è solo il frutto di alcune relazioni e contaminazioni periferiche con questi mondi. Sulla base di queste possiamo dire che le gang dei petit ne escono notevolmente rinforzate e agguerrite. Non bisogna dimenticare la quantità di armi che sono state sottratte nel corso delle sei giornate il che significa che, di fatto, c’è un livello di armamento operaio e proletario non proprio irrisorio ma è anche vero che, al momento, nessuno è in grado di dire come verranno utilizzate queste armi. Diciamo che l’ipotesi più probabile è che si scivoli dentro, uso un termine che non ha bisogno di molte spiegazioni, un militarismo tanto eroico quanto suicida. Questo, ovviamente, non è scontato, ma se su tutto ciò non si innesta una prospettiva di lotta di lunga durata il rischio c’è anche perché i petit, di loro, hanno una mentalità più affine all’insurrezione, intesa come spallata, che a una lotta che comprende tattica, strategia e disciplina. Per molti versi possiamo dire che vi è una situazione che non si è ancora cristallizzata e quindi un vero bilancio è veramente difficile farlo. In tutto ciò non bisogna sottovalutare il modo in cui, nel suo insieme, la società legittima ha reagito e sta reagendo. Forse è dai tempi dell’Algeria, almeno a memoria d’uomo, che non si vedevano livelli repressivi militari così alti e il richiamo all’Algeria ha a che fare anche con un altro aspetto, in campo sta scendendo, anche sul piano militare, un intero fronte di classe. L’apparire delle “ronde fasciste” va considerato e osservato non come qualcosa che rimanda al passato perché questi non sono i fascisti di ieri, che cercano di avere un po’ di notorietà nel presente, ma un fronte di classe nazionalista che rappresenta ampi strati di società francese.
Quindi, se quanto affermi è vero, è stato giusto dire, come abbiamo fatto, che siamo di fronte all’incipit della guerra civile?
Penso proprio di sì ma questo non deve stupire. L’epoca attuale è contrassegnata da crisi, guerre dentro uno scenario che vede un obiettivo tramonto dell’occidente, questo riaffiorare del nazionalismo ha ben poco di nostalgico, questo nazionalismo è un frutto moderno e contemporaneo che allinea un fronte di classe anche variegato. Contro la rivolta non vi è solo la grande borghesia ma tutte le classi intermedie e pezzi di classe operaia. La solidarietà mostrata nei confronti del poliziotto omicida non deve essere presa sottogamba perché mostra come intorno alla polizia e a ciò che rappresenta, si coagulano diverse forze sociali. Qua non si tratta di gridare al fascismo e neppure Le Pen, per essere chiari, pensa di restaurare Vichy, ma di cogliere la messa in atto di una guerra civile su basi nazionaliste intorno alla quale si coagulano diversi pezzi di società. Questo meccanismo è in atto e, come sempre, a un certo punto le cose cominciano a marciare da sole. Questo fa capire anche la cautela che c’è tra la gente dei “quartieri”. Però questo indica anche un’altra cosa, la possibilità che questa situazione offre alle forze rivoluzionarie ma, e lo ripeto sino alla noia, bisogna uscire dall’estetica del conflitto e dalla logica della spallata. In Francia, oggi, va sperimentata una forma organizzativa, su più piani, che sia in grado di instaurare un dualismo politico a tutti gli effetti. Chiaramente questa scommessa è tutto tranne che facile e scontata. Quello che sta andando in scena in Francia, nonostante le indubbie particolarità che ovviamente vi sono e vengono da lontano, ha a che fare con un modello politico e sociale che appartiene al mondo capitalista contemporaneo e, proprio per questo, credo che sia un errore, come spesso accade, ridurre il tutto al “caso francese”. Io credo che in quanto sta accadendo dobbiamo leggere una tendenza in atto del comando capitalista e non il frutto di ciò che viene comunemente definita “frattura coloniale”. Se guardiamo bene la Francia, in realtà, è il laboratorio europeo del modello americano e quindi del punto più avanzato dello sviluppo capitalista.
Questo mi sembra veramente il cuore della questione e mi spiego. Tutti hanno osservato come il livello di scontro di questi sei giorni sia stato di un tale portato da far impallidire persino le rivolte del 2005 e del 2006 le quali non erano state certamente una bagatella. Questo sembra essere vero sia per come si sono mossi i “quartieri”, sia per la risposta militare messa in atto dallo stato. Nel 2005 e 2006 lo stato si è mosso ponendo in atto, accanto alla repressione militare e poliziesca, un tentativo di politiche sociali finalizzate a gestire, non solo in termini di guerra e conflitto, la questione banlieue. Al proposito basta ricordare la quantità di interventi di politologi, sociologi e intellettuali che si erano riversati sul popolo dei quartieri e, insieme a questi, anche il proliferare di organismi sociali in banlieue. Oggi, invece, sembra che l’unico linguaggio che lo stato è disposto a parlare è quello della guerra. Allora, se tutto questo è vero, questa rivolta più che in continuità con il passato sembra incarnare una rottura del presente. Le cose possono essere viste in questo modo?
Cominciamo con il dire che sicuramente lo scontro posto in atto da entrambe le parti è sicuramente incommensurabile a quanto visto nel 2005 e nel 2006 ed è sicuramente giusto rilevare come, questa volta, la risposta statuale sia stata unicamente militare. Sono passati diciotto anni e in questo periodo sono cambiate parecchie cose. La crisi del 2008, che in qualche modo è ancora lì, la guerra come linea strategica del comando capitalista a livello internazionale, la necessità, quindi, di pacificare le retrovie, la guerra preventiva a quella composizione di classe che incarna, in tutto e per tutto, la non possibilità di un patto sociale con il comando. Questo non ha più nulla di francese, secondo noi sbagliano quelli che leggono quanto sta accadendo come un continuum del colonialismo francese. Certo, questo c’è, ma quello che deve essere colto è come questa particolarità francese oggi si inserisce dentro un modello che caratterizza un po’ tutte le metropoli imperialiste occidentali che si stanno sempre più plasmando sul modello americano. Paradigmatico il modo in cui Macron ha attaccato le donne di banlieue. Di questo ne parlerai dopo con M. B.
Ciò che, in qualche modo, prefiguri è uno scontro a tutto tondo tra questo nuovo soggetto proletario e ciò che si sta coagulando intorno alla polizia. Abbiamo letto tutti il comunicato dei sindacati di polizia così come abbiamo dovuto constatare come la solidarietà, che poi in realtà è il dichiararsi favorevole con l’esecuzione di Nanterre, nei confronti del poliziotto omicida abbia trovato consensi non proprio irrilevanti, infine, ma certamente non per ultimo, quanto le cosiddette ronde fasciste riscuotano un notevole consenso. Tutto questo, per la società francese, cosa significa? Cosa dobbiamo aspettarci?
Io credo che dobbiamo aspettarci una realtà sociale plasmata sul modello della società americana dove guerra di classe e guerra di razza si intersecano in continuazione anche se è molto utile precisare che, quando si parla di razza, bisogna precisare che si è neri perché si è poveri. Al fianco della polizia e dello stato non vi sono solo i bianchi, per questo ho più volte detto che qua non siamo dentro a alcun remake fascista, ma anche tutta quella popolazione, soprattutto araba che nel tempo ha acquisito un certo status sociale, che odia il nuovo proletariato. Impostare la lotta sull’antirazzismo significa non vedere che cosa concretamente è diventata questa società. Il fallimento a cui sono andate incontro tutte le associazioni di questo tipo presenti nei quartieri ne sono una buona esemplificazione.
Scusa se ti interrompo. Queste associazioni che ruolo hanno avuto nel corso della rivolta?
Ne sono state travolte e non poteva essere altrimenti. Sono diventate, e non da oggi, una struttura superflua e questo indica anche il mutamento di passo che c’è stato dentro la società francese. Ora provo a spiegarti. Tutte queste organizzazioni, nate anche con buoni propositi, facevano, direttamente o meno, parte di quel “pacchetto sociale” finalizzato a gestire i quartieri non solo in maniera militare. Ben presto, però, queste realtà, la cui esistenza dipende dai finanziamenti pubblici cosa che non bisogna dimenticare, si sono trovate di fronte a un bivio: o cercare di assolvere sino in fondo il loro ruolo di addomesticatori di una situazione sociale la quale, giorno dopo giorno, diventava sempre più esplosiva oppure farsi carico di questa. Farsi carico di questa, però, significava affrontare di petto alcuni nodi che chiaramente entravano direttamente in rotta di collisione con le politiche statali e cittadine nei confronti dei quartieri. Chi ha provato a farlo si è ritrovato con i fondi tagliati e con la quasi impossibilità di svolgere una qualche attività. Chi, per capirsi, si è del tutto integrato con la “linea dello stato” è stato foraggiato ma, in contemporanea, ha iniziato a essere odiato dentro i quartieri perché considerato, e con ampia ragione, come l’altra faccia della polizia. Durante la rivolta queste associazioni sono state attaccate e distrutte. Le poche associazioni non allineate sono semplicemente state scavalcate dagli eventi. La rivolta ha fatto tabula rasa un po’ di tutto di per sé, il fatto che vi siano solo macerie non è un male, bisogna vedere che cosa si sarà in grado di ricostruire.
Questa tabula rasa ha comportato anche l’azzeramento delle strutture islamiche?
Le uniche cose che sono rimaste in piedi delle realtà islamiche sono state le moschee, per il resto i petit non hanno fatto sconti a nessuno. Non sono state risparmiate le macellerie islamiche, le tabaccherie gestite da arabi o i negozi. Quelli che parlano di islamizzazione dei quartieri dicono solo cazzate. Per quello che ci è dato sapere molti Imam hanno cercato di fare da pacificatori ma nessuno è stato ad ascoltarli. Quella che si chiama, in giro c’è anche, è un discorso che appartiene prevalentemente alla vecchia destra, la reazione in atto è contro il proletariato non è di destra e borghese, questo è ciò che va compreso.
Grazie per averci fornito una lettura ben poco convenzionale di ciò che sta accadendo ora, però, torniamo a cosa succede adesso nei “quartieri”. Vi è una possibilità di interazione con questo settore proletario oppure tutto ciò che ha un qualche sapore di politico, dai petit, viene rifiutato a priori?
No, un rifiuto a priori non c’è, parlo almeno per quanto riguarda noi, però è anche vero che esiste una difficoltà enorme di comunicazione e di lettura della cornice diciamo culturale e esistenziale dei petit. Sicuramente rileviamo che gran parte di tutto il nostro armamentario politico e teorico con questi ha ben poco a che fare e che, quindi, occorre un grosso sforzo da parte di chi si ritiene avanguardia di ricalibrare la teoria comunista a partire da ciò che il movimento reale esprime. Su questo, però, occorre essere chiari per non finire in ciò che, di fatto, è l’intellettualismo del movimento. Qua non si tratta di sfornare analisi sociologiche o di fare delle interpretazioni più o meno fantasiose su ciò che accade, si tratta di stare dentro a ciò che il movimento reale esprime. In altre parole, si tratta di andare sempre a scuola dalle masse e tenere sempre ben a mente che le masse del presente non possono mai essere uguali e neppure simili alle masse di ieri. Le masse, come noi tutti del resto, siamo il frutto di una realtà in perenne trasformazione. Il marxismo è un metodo non una verità assoluta e rivelata. Noi nei quartieri un po’ ci siamo, delle cose le stiamo facendo e sappiamo che dovremmo continuare, con pazienza, a percorrere questa strada. Solo l’internità alla classe può dare dei frutti, poi si vedrà.
Nel corso dell’intervista si è accennato alle donne di banlieue e come proprio contro di loro si sia riversato l’odio delle istituzioni in quanto considerate dirette responsabili dei comportamenti dei petit. Su questo aspetto riportiamo un sintetico ma molto significativo punto di vista di M.B., una giovane donna di banlieue, pugile agonista e attiva all’interno del Collectif boxe Massilia
Macron ha chiaramente tirato in ballo le famiglie e le donne di banlieue ree di non saper educare i figli. Di fronte a ciò il movimento femminista ha preso posizione?
Diciamo che su questo si è veramente toccato il fondo. Un attacco di questo tipo non si era mai visto, qua siamo veramente alla messa al bando di interi pezzi di società. In questo passaggio si consuma, sul piano formale, la stessa idea dell’esistenza della République. Questo attacco ci racconta di quanto sempre più la banlieue sia stata del tutto assimilata al modello dei ghetti americani. In questi sono le donne a vivere la condizione di maggiore oppressione e sfruttamento oltre a essere, quasi sempre, sole a gestire i figli. Su questo andrebbero dette e scritte una marea di cose, ma non è questo il momento. Ciò che va evidenziato è come di fronte a questo attacco specifico e mirato alle donne di banlieue il movimento femminista non abbia aperto bocca, A noi questo non stupisce perché da tempo ripetiamo che il movimento femminista è tutto interno allo stato e da questo è foraggiato. Il movimento femminista è un movimento borghese e non possiamo aspettarci certo da questo la nascita di strutture di autodifesa delle donne di banlieue. Ma le donne di banlieue non sono l’anello debole dei quartieri, semmai il contrario. Non è utopia pensare che proprio da loro possano prendere forme di organizzazione politica particolarmente avanzate. I presupposti, non solo oggettivi, ma soggettivi vi sono tutti e chi ha un qualche rapporto reale con questi mondi lo può facilmente constatare.
Chiusa questa prima parte abbiamo provato attraverso le parole di J. B., militante del Collectif Chomeurs Precaries e redattrice della rivista Revue Supernova, a dare uno sguardo sull’insieme di ciò che si sta muovendo in Francia dove, prima dell’esplosione dei “quartieri”, si era assistito a due grossi movimenti di massa, i gilet gialli e il movimento contro la riforma delle pensioni, per comprendere se e come questi movimenti hanno, in qualche modo interagito con il “popolo dei quartieri”. Infine, abbiamo provato a capire in che modo le varie forze politiche hanno interagito con i petit focalizzando lo sguardo anche sui sommovimenti che la rivolta ha prodotto nel fronte borghese.
C’è stata una qualche interazione tra questa rivolta e i segmenti sociali che avevano dato vita al movimento dei “gilet gialli”
Come ben sai io vengo proprio da quella esperienza e ti ho spiegato anche i motivi per i quali, a un certo punto, l’ho abbandonata. D’altra parte, quel movimento si è dissolto e oggi di esso non vi è alcuna traccia. Solo alcune delle persone con le quali ero in più in stretta relazione all’epoca dei gilet ha guardato con una qualche simpatia alla rivolta i più, però, mi sono sembrati contrari.
Eppure i gilet avevano mostrato una non secondaria radicalità e non sembravano particolarmente afflitti dal legalitarismo. Sicuramente non con i toni della rivolta attuale però, nel corso dei loro sabati, si era assistito a livelli di scontro di notevole spessore. Come mai, allora, questa distanza?
Mah, il problema è essenzialmente una questione di classe. Il movimento dei gilet era principalmente un movimento di settori sociali in via di proletarizzazione, di lavoratori autonomi in grave difficoltà e, cosa da non dimenticare, sviluppatosi in gran parte in quelle aree che vengono definite come “la Francia profonda”, ovvero molto poco cittadina. Era un movimento che esprimeva un grosso malessere sociale che aveva manifestato anche alcune punte di radicalizzazione, ma non era riuscito a darsi una chiara connotazione di classe tanto che non è mai riuscito a mettere in piedi uno sciopero. Quel movimento, alla fine, è andato per conto suo senza riuscire a collegarsi con altre realtà ma se ci pensi questa è la storia di tutti i movimenti che nell’ultimo periodo si sono espressi.
Questo mi porta inevitabilmente a chiederti se c’è stata una qualche interazione tra il “popolo della rivolta” e la composizione di classe scesa in piazza contro la riforma delle pensioni?
Direi proprio di no e la cosa non deve certo stupire. Si tratta di due ambiti completamente diversi che rimandano a postazioni e visioni del mondo ben difficilmente compatibili. Non esagero se dico che una parte di quelli che sono scesi in piazza per la riforma delle pensioni nei confronti della rivolta si sia posizionata sulla stessa lunghezza d’onda della polizia- Pensare che l’aristocrazia operaia possa inserirsi in massa dentro una prospettiva rivoluzionaria è pura follia, l’aristocrazia è parte dello stato e questo non da oggi. Storicamente l’aristocrazia operaia, nei momenti di crisi, si è sempre schierata, e anche in maniera attiva, con la borghesia. Ciò che mi riesce veramente difficile capire è come in tanti abbiano potuto prendere un simile abbaglio. Come ti ho detto ogni movimento è andato per conto suo, ma le cose sarebbero potute andare in altro modo? Io non credo. Siamo di fronte a una trasformazione complessiva delle condizioni di classe e ogni frazione di classe combatte a partire dal suo punto di vista. La borghesia in via di proletarizzazione non vuole diventare proletaria, l’aristocrazia operaia vuole rimanere tale e il nuovo proletariato combatte eroicamente contro tutto e tutti ma non ha un programma. Ma le cose vanno avanti e la piccola borghesia sarà proletarizzata e la aristocrazia operaia spazzata via e, a quel punto, se il proletariato sarà stato in grado di elaborare un programma, molte cose potrebbero cambiare. In tutto questo mi sembra importante dire che forse il principale problema che ci troviamo a affrontare è l’assenza di una idea–forza. Che cosa significa comunismo? Cosa significa rivoluzione? Cosa vuol dire dittatura operaia? In un passato ormai remoto a queste domande vi erano delle risposte, oggi palesemente no. Questa mi sembra essere la vera strettoia che dobbiamo affrontare. Diciamo che è chiaro contro cosa lottare, molto meno per che cosa. A me sembra molto significativo che, come abbiamo visto qua a Marsiglia, le merci siano state il principale obiettivo della rivolta. Al momento la merce è, chiamiamolo, il programma di questo proletariato il che non è né un bene, né un male ma un fatto. Da questo orizzonte, da questo immaginario occorre partire.
Quindi, è una domanda che ho già fatto ma vorrei tornarci sopra, tutti i discorsi sulla islamizzazione e via dicendo non hanno alcun senso?
Assolutamente. I petit erano interessati a portare via tutto, oltre che a scontrarsi con la polizia, erano quelle merci che a loro sono negate a mandarli all’attacco. Erano tutti quegli oggetti che potevano solo guardare da lontano a smuovere il loro immaginario, le merci erano e sono la loro idea–forza. Da lì, può piacere o meno, devi partire. In questo, però, devi leggere il rifiuto della povertà, il rifiuto di condurre una vita fatta di continue rinunce, di assenza di risorse, insomma il rifiuto all’essere operai e proletari. Qua, ed è qualcosa di completamente diverso da quel passato che ha caratterizzato per lo più il movimento comunista, vi è tutto tranne che l’orgoglio di essere operai e proletari, semmai ciò che si odia è proprio questa condizione. Prendersi le merci è sicuramente una cosa illusoria, ma appare il modo più semplice e immediato per emanciparsi dalla propria condizione. Come puoi capire in tutto questo l’Islam non c’entra niente. Semmai, ma questo è un altro discorso, in certi casi l’Islam può essere assunto in maniera simbolica in quanto antifrancese il che, come puoi capire, è ben diverso da una adesione a questo. Le realtà islamiche presenti nei quartieri hanno provato a svolgere un ruolo di pacificazione nel corso della rivolta, ma non sono stati minimamente ascoltate.
A questo punto vorrei chiederti che rapporto c’è stato, se è avvenuto, tra la frazione proletaria della rivolta e le varie anime del “movimento”?
Intanto diciamo che non c’è stato. Tutti hanno preso una posizione che andava dall’entusiasmo proprio delle aree autonome, anarchiche e maoiste, a quello di appoggio sì ma con dei distinguo delle varie anime trotskyste sino alla condanna propria degli eredi del PCF e dell’associazionismo sociale e pacifista. In linea di massima, però, non si è andati oltre a un atteggiamento da tifosi. Questo il vero problema della situazione. Non mi sto a ripetere sulla nostra, pur modesta, presenza dentro alcuni ambiti di questa composizione di classe, ne abbiamo già ripetutamente parlato ed è inutile tornarci sopra. Potrei dirti, a partire da ciò, che noi siamo stati dentro alla rivolta, ma direi una falsità. Il lavoro che abbiamo fatto e stiamo facendo sta dando anche dei frutti ma ciò non toglie che, anche noi, siamo molto distanti da tutto ciò che è successo. Ora, come sempre accade in queste situazioni, si consumeranno fiumi di inchiostro, ognuno dirà la sua, ognuno si sentirà di essere il vero interprete della rivolta e tutto questo, ovviamente, sino alla prossima volta. Nel frattempo i quartieri continueranno a stare lì e il movimento a stare qua. Da questa situazione se ne esce solo in un modo: alzando il culo e andando a relazionarsi con la classe. Tutto il resto sono parole che lasciano il tempo che trovano. Potrei mettermi qua a fare le pulci a questo e quello ma non credo che sia questo il modo per affrontare la situazione. Ha senso mettersi a polemizzare che so con gli anarchici piuttosto che con i maoisti? Questo ipotetico dibattito sposta forse di una sola virgola la realtà dentro i quartieri e la sua composizione di classe? Se le domande che mi faccio sono queste allora il mio agire non può che assumere tutta un’altra dimensione. Devo partire dalla classe e non dal movimento. La discussione sul movimento e le sue prese di posizioni mi sembra solo una perdita di tempo. Invece, questo sembra essere l’ultimo dei problemi. I vari siti sono già inondati di articoli, saggi, analisi e chi più ne ha più ne metta ma di come relazionarsi a questa composizione di classe proprio non si parla. C’è la gara a chi fa l’analisi più raffinata, anche se non si capisce sulla base di che cosa, e tutto il resto viene messo tra parentesi. Avrai notato come noi e le realtà simili a noi con le quali stiamo cercando di costruire, a partire dal movimento dei precari e dei disoccupati, un rapporto organizzato con questo proletariato siamo stati i più cauti, quelli che hanno scritto di meno e questo perché, a differenza di altri, abbiamo cercato di capire di più.
Vorrei chiudere chiedendoti qual è stato il comportamento di La France Insoumise di fronte alla lotta dei banlieuesards?
Qualcuno ha sentito la sua voce? A parte la battuta no, La France Insoumise è completamente scomparsa, di lei non si è avuto alcuna traccia. Ma la vera domanda da porsi è: “Che cosa avrebbe potuto fare?” La France Insoumise è un cartello elettorale e basta. Un cartello elettorale, in un paese dove la maggioranza non vota, che pensa di essere ancora negli anni ’60 dove le politiche riformiste avevano un notevole spazio e la ricerca di un patto sociale tra le classi era anche nelle corde della borghesia. In una situazione in cui tutto tende a declinarsi dentro un conflitto politico–militare cosa può fare, che ruolo può avere una forza come La France Insoumise? Palesemente nessuno. Poi, anche volendo, sulla base di cosa avrebbe potuto agire? Non ha strutture territoriali, non ha strutture di lotta, non ha Comitati di quartiere, La France Insoumise è una forza politica virtuale al pari di tutte le altre. Il suo distacco dal paese reale non è poi così diverso da quello di Macron. Il parlamento è un corpo vuoto e questo vale per tutte le forze politiche. Al proposito mi sembra indicativo il fatto che la controffensiva borghese non sia partita da qualche forza politica, ma che a dettare la linea della guerra civile sia stata la polizia. La stessa Le Pen si è accodata alla polizia, il che vuol dire ben qualcosa. Le classi si stanno organizzando, sicuramente questo è vero per il fronte borghese, attorno a corpi e strutture non riconducibili ai partiti politici, i quali non hanno alcun legame, se non quello puramente elettoralistico, con la società. Questo è un mondo che, in qualche modo, aveva decretato la fine della società di massa dove, per società di massa, si intende la partecipazione attiva e organizzata delle classi sociali alla vita pubblica. Una convinzione che attraversa tutti gli schieramenti politici i quali, non per caso, non hanno alcuna articolazione di massa. Chiaramente questa è una illusione perché le masse, tutte le masse, finiscono sempre con l’entrare in gioco. Quando questo succede i partiti politici rimangono spiazzati. Qua non si tratta neppure più di tirare a mezzo il “cretinismo parlamentare”, non si tratta di questo, qua si tratta di prendere atto come le masse per affermare il loro protagonismo non possano fare altro che, nel caso della classe operaia e del proletariato, costruire i suoi organismi ex novo, mentre la borghesia fa leva su alcune strutture, come la polizia, le quali iniziano a assolvere un compito politico. La France Insoumise ha dimostrato di non essere altro che un fetido cadavere, fuori dal tempo e dalla storia.
Ma con tutta quell’area sociale che è stata l’anima del successo elettorale de La France Insoumise è possibile costruire delle relazioni in funzione della costruzione di organismi di massa?
Se consideriamo l’ossatura politica de La France Insoumise direi proprio di no. Politicamente questi sono il retaggio di tutte le cose peggiori della vecchia sinistra francese, il PCF e dintorni. Con loro non è possibile neppure parlare, figuriamoci ipotizzare dei percorsi organizzativi comuni. Se il discorso si sposta su quelli che hanno votato il movimento allora le cose possono anche cambiare ma è qualcosa che devi andare a verificare nella pratica, dentro a delle proposte e iniziative concrete, non si può rispondere in astratto. Tieni presente che la gran massa degli elettori de La France Insoumise è riconducibile a quel settore di classe che ha dato vita al movimento contro la riforma delle pensioni. Sui limiti e le contraddizioni di quel movimento mi sembra che abbiamo già discusso a sufficienza. Rispetto a questi ci potranno essere, per un verso, minimi spostamenti soggettivi, dei quali tra l’altro abbiamo già parlato, dall’altro, e si tratta della cosa più importante, degli spostamenti oggettivi ovvero quanta di quella composizione di classe si ritroverà sempre più alle condizioni del soggetto operaio e proletario che ha dato vita alla rivolta. Lo smembramento della aristocrazia operaia è uno dei progetti del governo Macron ed è un progetto che verrà realizzato, a partire da questo si potranno fare altri ragionamenti che però avranno una base materiale e non ideologica. La France Insoumise e tutto il suo ceto politico in tutto questo non possono avere alcun ruolo.
Emilio Quadrelli — 13 Luglio 2023