Marco Rossi, Le Ombre di Fiume, tra nazionalismo e sovversione, 1919–1924
Milano, Zero in Condotta, 2023, pp. 382, € 20.00
L’Impresa fiumana gode ormai d’una consistente bibliografia di studi storici in senso revisionista, da intendersi nel significato puro dell’aggettivazione. Una bibliografia tutto sommato recente, se si considera l’epoca descritta, in cui si è effettuato un lavoro di affrancamento dall’immagine fatta propria dalla propaganda fascista, che ha inglobato quell’esperienza, tramandandola come prodromo del Ventennio. Mancava all’appello l’autore forse più titolato a scriverne, colui che nella contemporaneità ha gettato sul tavolo della ricerca storiografica e del dibattito politico – culturale, inevitabilmente ad essa collegato, il nesso tra combattentismo di guerra e sovversivismo, senza il cui approfondimento i fatti di Fiume resterebbero incomprensibili. Si tratta infatti dell’autore di Arditi, non gendarmi!, la monografia con cui, nel 1997, si affrontava, sostanzialmente per la prima volta a livello nazionale, la genesi degli Arditi del popolo. Il resto sarebbe venuto dopo.
Marco Rossi, poggiando su una mole di documentazione a dir poco imponente, risponde di fatto a tutti gli interrogativi che solitamente si pongono attorno a Fiume, il più grande episodio di sedizione militare dell’Italia postunitaria, confutandone nomee, semplificazioni, esagerazioni o letture ad ogni modo fuorvianti.
Il volume si presenta con un consistente apparato critico in cui le note a margine spesso non si limitano alla citazione della fonte ma riportano elementi di assoluto interesse, quasi a comporre un secondo volume nel volume. Tuttavia, la brevità dei capitoli ed i ritmi di scrittura sostenuti fanno sì che non risulti intaccato il potenziale divulgativo dell’opera. Notevole, inoltre, la suggestiva appendice fotografica e la trascrizione per intero di documenti, altrove di solito citati parzialmente.
Le considerazioni che si traggono dalla lettura, sono innumerevoli ma, come sempre nella storiografia, non esistono veri e propri punti fermi, né tantomeno irremovibili conclusioni.
L’Autore fa apparire in modo nitido come i fatti di Fiume debbano necessariamente essere inquadrati in quel sentimento di matrice risorgimentale che aveva animato il garibaldinismo del Secolo precedente, quel volontarismo che aveva spinto i giovani ad arruolarsi per combattere in terre lontane in nome della libertà dei popoli oppressi e che aveva visto il suo apice proprio nell’interventismo democratico e rivoluzionario nella Grande guerra. Lo stesso spirito che aveva mosso i cosiddetti precursori, giovani anarchici, repubblicani e socialisti, ad accorrere in Serbia ed in Francia prima dell’ingresso in guerra dell’Italia, a combattere contro gli imperi centrali, muniti — e questo, in luce di quanto sarebbe accaduto di lì a poco, non può suonare che paradossale – di propositi antimilitaristi, dal desiderio che non vi fossero più guerre. Il medesimo spirito che ha, infine, caratterizzato i legionari dei Reparti d’assalto tra l’11 ed il 12 settembre 1919 nel seguire, o nel guidare, Gabriele D’Annunzio da Ronchi alla volta dell’occupazione della Città quarnerina.
Ma lo spirito non è, appunto, immutabile. Le vicende della Prima guerra mondiale avevano rappresentato uno snodo, rispetto alle motivazioni patriottiche di stampo risorgimentale: da tempo, da decenni ormai, si andava facendo largo con sempre maggiore veemenza la questione dell’espansione imperialistica, della conquista dello spazio vitale, anche per l’Italia. La fratellanza dei popoli stava cedendo il passo all’aggressività, ora con l’aggiunta della paura per l’estensione della Rivoluzione bolscevica. Elementi che avrebbero fatto la fortuna dell’ascesa fascista a danno dei sentimenti riguardanti l’interventismo democratico e rivoluzionario.
È in questo snodo che si consuma l’avventura fiumana, e il suo Comandante, D’Annunzio, ne è la perfetta incarnazione. Con un passato politico a dir poco ondivago e, pur tuttavia, con una sua autorevolezza guadagnata sul campo di battaglia, il Vate parte per Fiume nel segno del nazionalismo, non sprovvisto di un corollario di frasi orripilanti contro le popolazioni slave. Un razzismo nazionalista che, tuttavia, per il mutato quadro politico nazionale ed internazionale, soprattutto il consolidamento della Russia sovietica e il Biennio rosso, per le incertezze fasciste nei confronti dell’esperienza e per altro ancora cede il passo ad una visione più ampia, internazionale e di giustizia sociale, che a Fiume finisce per manifestarsi esplicitamente, sebbene in un quadro più astratto che fattivo.
Bisogna qui innanzitutto comprendere che a Fiume non vi fu mai un potere politico assoluto. Si assistette nei fatti ad una diarchia tra il Comando legionario fiumano, capeggiato da D’Annunzio, ed il Consiglio nazionale fiumano, composto dal notabilato già austro – ungarico con compiti di polizia, di orientamento conservatore – reazionario e particolarmente accanito contro un movimento operaio possente, in un’importante città portuale ed industriale come Fiume. Tutto ciò che avviene a Fiume, si consuma all’interno di questa cornice.
A tal proposito, si tende, in genere, a suddividere il periodo fiumano in due fasi, con lo spartiacque del dicembre 1919, quando D’Annunzio sostituisce a Capo di gabinetto il nazionalista Giovanni Giuriati con il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. Dal volume emerge che, in realtà, il conflitto tra le diverse visioni è costante per tutta l’impresa, con il prevalere talvolta dell’una, talvolta dell’altra. D’Annunzio, in alcune circostanze, tenta un ruolo di mediazione.
Prendendo in esame i documenti, non si può ignorare la costituzione redatta dalla Reggenza del Carnaro, passata alla storia con il nome di, appunto, Carta del Carnaro. Com’è noto, la redige De Ambris e la rivede nella forma D’Annunzio per conferirle un valore più lirico – letterario. In questo dettato finisce un po’ tutto il retroterra politico e sentimentale dell’Impresa: vagheggiamenti che rimandano all’Antica Roma, ai Comuni medievali e alle corporazioni, assieme ad istanze di tipo massonico con elementi di socialismo pre – marxista. Una carta che, però, rimane tale, a lungo riferimento ideale per chi aveva condiviso ed appoggiato l’Impresa. A livello sociale a Fiume non si risolve la questione del proletariato: la classe operaia, nonostante tutti gli slanci, resta in un ruolo subalterno. È qui ben descritta la composita realtà delle camere del lavoro, nei loro vari orientamenti e nei loro organi di stampa. Gli esponenti delle forze proletarie si trovano spesso in stato di fermo, quando non percossi. Anche qui D’Annunzio interviene a fini di protezione e declina ogni responsabilità, incolpando il Consiglio di arbitrio.
In termini di politica estera, Fiume entra in contrasto con l’imperialismo interalleato. C’è il reciproco riconoscimento diplomatico con la Russia dei soviet e si prodiga per la nascita nel suo territorio della Lega dei popoli oppressi, con l’afflusso di combattenti dello Sinn féin irlandese e di esuli dall’esperienza sovietica dì Ungheria. Secondo quanto dichiarato dal Vate nella celebre intervista a “l’organo di Malatesta”, cioè “Umanità nova”: “È mia intenzione di fare di questa città un’isola spirituale dalla quale possa irradiare un’azione, eminentemente comunista, verso tutte le nazioni oppresse”. Un’irradiazione che finì per comprendere i, come si scriveva ai tempi, “negri d’America”. Un impegno che, per quanto disatteso, non avrebbe potuto non lasciare tracce.
L’esperienza fiumana ha ovviamente riscontri in Italia, anche nel senso sopra descritto. Spicca, a tal proposito, il “complotto anarco-futurista” di Milano su cui l’Autore si sofferma.
Non sono qui trattati, se non marginalmente, gli elementi, per così dire, lussuriosi di Fiume, su cui esiste una vasta letteratura. Si nota, tuttavia, che gli elementi esteticamente più eccentrici avrebbero aderito con entusiasmo al fascismo, di cui sarebbero stati solerti squadristi.
Com’è noto, l’Impresa di Fiume si chiude nel Natale di sangue del 1920, con i cannoneggiamenti della Regia marina militare. La Città si avvia così alla normalizzazione che sarebbe avvenuta sotto il fascismo. Si documenta qui come tutte le formazioni proletarie avevano o nell’immediato o in tempi strettamente successivi, simpatizzato direttamente con Fiume o valutatone comunque il potenziale rivoluzionario, almeno ai fini di destabilizzazione. Oltre al Partito repubblicano, che fu a fianco dell’Impresa fino al suo epilogo, si fa qui riferimento alla stampa periodica rivoluzionaria, “Umanità nova”, in primis, poi “L’Ordine nuovo” e la stessa testata di Amadeo Bordiga, “Il Soviet”. Ma, per le ragioni di cui sopra, la saldatura di Fiume con le istanze rivoluzionarie alla fine non avvenne. La disponibilità dello stesso Errico Malatesta non portò agli esiti sperati, anche perché i futuristi di stampo nazionalista non intendevano certo l’anarchismo nella sua accezione politica di, per così dire, acrazia ma come rifiuto delle categorie partitiche, in anticipo su quello che sarebbe poi stato chiamato qualunquismo.
Chiusa l’Impresa, i legionari fiumani procedono in ordine sparso. D’Annunzio, di fatto, si ritira a vita privata, ignorando gli appelli che, da più parti del mondo combattentistico, gli provenivano perché si opponesse esplicitamente al fascismo. I “fiumaroli” sposano quindi e fanno propri i vari elementi che si sono manifestati nella Città di vita. Tra costoro vi sarebbero stati, infatti, fieri assertori del fascismo, così come tenaci ed irriducibili suoi oppositori. E non è certo fuorviante affermare che l’Antifascismo, poi detto, militante trovi le sue origini proprio a Fiume. Già, perché mentre le istituzioni operaie si sarebbero dimostrate del tutto impreparate dinanzi all’offensiva dello squadrismo fascista, fu tra il legionarismo e, più in generale, tra i combattenti, che si fece largo l’idea di affrontarlo scendendo sul suo stesso terreno. Va aggiunto che il fascismo avrebbe fatto molta fatica ad assoggettare, in generale, il mondo combattentistico, cosa avvenuta di fatto a Regime inoltrato, a seguito delle Leggi eccezionali, quando le organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio non erano ormai che un ricordo.
L’Autore si sofferma qui, ovviamente, sul seguito del fiumanesimo, analizzando, in particolare, tre organizzazioni: la Federazione legionari fiumani, l’Unione spirituale dannunziana e Italia Libera. Tutte di orientamento antifascista, tutte abbandonate al loro destino da quello che pure reputavano il loro capo morale, tutte impegnate in seno al combattentismo a cospirare contro il nascente Regime e a scontrarsi per le strade con gli squadristi fascisti. C’è, va da sé, il riferimento agli Arditi del popolo, dei quali la matrice fiumana è innegabile.
Interessanti anche i passaggi su Giustizia e libertà ed il Partito d’azione, realtà che nella terminologia e nella simbologia avrebbero alluso fortemente al portato fiumano, sebbene il fatto sembra sia negato, o forse più semplicemente ignorato, dagli studiosi dell’azionismo.
Le ultime battute sono dedicate proprio ai destini individuali di quei legionari, o comunque sostenitori di Fiume, che, in un modo o nell’altro, in un tempo o nell’altro, si sarebbero opposti al fascismo e, infine, al nazifascismo. Tra la dissidenza, il carcere, il confino, l’esilio, il volontarismo antifascista in Spagna e la Resistenza, sino ai campi di sterminio e le Ardeatine stesse, dove videro il proprio Martirio Aldo Eluisi, Umberto Lusena e Mario Magri.
Alla luce di ciò, ed in conclusione, se ci si chiede quali siano i legittimi eredi di Fiume, bisogna innanzitutto affermare che quell’esperienza venne in essere in un momento di passaggio tra l’Italia che non c’era più, quella postunitaria anteguerra, e quella che sarebbe venuta dopo. Esperienza che si consumò nello stesso periodo in cui ebbero significativamente a verificarsi altri due episodi, non a caso trattati dallo stesso Rossi, da solo o a quattro mani, quali l’assalto alla Redazione milanese de “L’Avanti!”, del 15 aprile 1919, e la Rivolta dei bersaglieri di Ancona dell’anno successivo.
Di Fiume, della sua eredità, si può quindi affermare che il fascismo, pur avendone monopolizzato la memoria, fu nei fatti ostile e, in ultima analisi, persecutore. Quei legionari che, invece, sentendosi in continuità con lo spirito di Fiume e, in generale, della Trincea hanno abbracciato esplicitamente l’Antifascismo sino all’estremo sacrificio, dimostrano che c’è stato un dannunzianesimo aldilà e al di sopra di D’Annunzio stesso.
Silvio Antonini