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«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente»

(K. Marx)

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A cento anni dal 4 novembre

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Questa nota è stata ispirata da un’intervista rilasciata ieri dal capo di Stato Maggiore, Generale Farina sulla ricorrenza del 4 novembre.  Si sono lette parole così dense di retorica bellicista e nazionaliste da non poter essere lasciate senza replica.

Ricorrono i 100 anni dalla conclusione della Prima Guerra Mondiale e naturalmente sono previste al riguardo cerimonie e manifestazioni di ricordo.

Mentre lorsignori celebreranno quella che D’Annunzio poi appellò “vittoria mutilata” e che deve essere prima di tutto ricordata come porta aperta sulla tragedia del fascismo, noi rammentiamo qui la memoria di quante e quanti si opposero a un massacro durato quattro anni.

L’Italia entrò in guerra attraverso un vero e proprio colpo di stato come paese aggressore un anno dopo lo scoppio del conflitto europeo.

L’Italia sofferse 650.000 morti e un milione di feriti e nel corso dei 3 anni e mezzo di conflitto.

In quell’occasione si prepararono le condizioni per l’avvento del fascismo.

Questa, ridotta in pillole, l’essenza storica dell’andamento e dell’esito della Prima Guerra Mondiale per cui si può ritenere che non ci sia proprio nulla di trionfalistico da celebrare e che non ci sia nessuna grancassa nazionalista da suonare.

Il nostro primo pensiero però va rivolto ai soldati al fronte vittime della decimazione imposta da un’assurda disciplina voluta in prima persona dal generale Cadorna e dagli alti comandi. Un'apposita commissione parlamentare di inchiesta su Caporetto istituita all'indomani della fine della guerra diede le cifre ufficiali delle condanne a morte: 1006 delle quali 729 eseguite. Queste cifre non comprendono le esecuzioni sommarie e l'applicazione della pena capitale in trincea a discrezione degli ufficiali responsabili in caso di emergenza, una stima di questi casi, che comprendono quelli di decimazione si attesta a 300 soldati fucilati.

Da ricordare ancora come I soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un assalto ad esempio potevano essere colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri e di queste esecuzioni non si ha menzione ufficiale.

Va rammentato ancora che per la prima volta nella storia che immense collettività furono coinvolte in una guerra totale, dove l’intera popolazione visse un’esperienza comune di sacrificio e di dolore per i familiari al fronte e per le nuove condizioni di esistenza imposte dalle esigenze belliche.

Ne furono sconvolte le comunità urbane come quelle rurali, la vita familiare e la vita individuale, i rapporti fra uomo e donna, le relazioni sociali, le abitudini civili.

In tutti i paesi in guerra la popolazione civile fu sottoposta a un’inaudita esperienza di disciplina collettiva: il potere statale fece sentire la sua forza in una dimensione addirittura di onnipotenza, investito della decisione di vita e di morte per milioni di cittadini come mai era avvenuto in passato.

Le manifestazioni di dissenso e di opposizione alla guerra furono perseguite come atti di disfattismo.

Il movimento operaio si scisse, probabilmente in una dimensione irreparabile.

Quanto abbia pesato l’adesione dei due grandi partiti, quello francese e quello tedesco nel terribile agosto 1914 sulla rottura storica del movimento operaio deve essere ancora oggi tema di riflessione.

Probabilmente la nostra sconfitta, come movimento operaio, non nacque dal fatto che in Russia nel 1917 si sarebbe fatta una “Rivoluzione contro il Capitale” (quello di Marx beninteso, come scrisse subito Antonio Gramsci che poi la sostenne così come aveva riflettuto, ed anche oscillato, sul concetto di “neutralità attiva e operante” al momento dello scoppio della guerra) ma proprio dalla scelta di francesi e soprattutto tedeschi.

 La grande SPD cedette al nazionalismo, un punto da considerare ancora, certamente non obsoleto rispetto alla nostra riflessione di oggi.

Il Partito Socialista Italiano fu l’unico dei grandi partiti occidentali a non allinearsi alla logica nazionalistica e questo va pure ancora ricordato.

Durante la guerra continuarono le agitazioni popolari avverso le sempre più precarie condizioni di vita che la condizione bellica stava imponendo.

In particolare nel 1917, in Italia, si svolsero scioperi intensi, lunghi e partecipati. La classe operaia tornò a lottare nella sua totalità, scoppiarono le rivolte a Torino, Livorno, Terni, Napoli, in Lombardia.

Il più importante fra questi atti di rivolta si verificò nell’agosto 1917 a Torino.

Fu quella passata alla storia come “La rivolta del pane”.

Una ribellione sfortunata, nel corso della quale il movimento operaio lasciò sulla strada decine di morti e alla quale dedichiamo questo spazio in memoria di quanti, donne e uomini, seppero lottare in quel momento difficile per affermare le ragioni della loro sopravvivenza, della convivenza civile e della pace.

È passato un secolo: serve ancora ricordare, riflettere, analizzare e soprattutto non piegarsi alla retorica nazionalista.

Oggi più che mai è importante la nostra autonomia di pensiero e la nostra capacità di visione dei fatti della storia, al di fuori da ogni indulgenza e senza retorica.

Franco Astengo   Da: Delegati e Lavoratori Indipendenti Pisa

 

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