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Le parole rubate. Contro-dizionario per la sinistra

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di Roberto Gramiccia e Simone Oggionni

Prefazione di Alberto Olivetti

Mimesis edizioni, 2018

 Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che potrebbe preservare delle vite umane.

(S. Weil, 1937)

 All’inizio del nuovo secolo, nel corso del video-documentario “In viaggio con Vittorio Foa”, a cura di Paolo Medioli, l’ormai anziano ex azionista poneva la questione nascente dell’“irrilevanza della parola”: di una parola, cioè, destituita da qualsivoglia univocità e conseguente obbligo di osservanza. Una parola “liquida”, diremmo oggi, che non designa più i confini stessi della “cosa” rendendosi intercambiabile ad altri orizzonti di senso.

Nel 2008, anno della sua morte, seguì, in collaborazione con Federica Montevecchi, “Le parole della politica” che si proponeva di analizzare, a partire dal degrado del linguaggio politico di quegli anni berlusconiani, le ragioni per le quali le parole non avessero più peso, non costituissero più alcun impegno per il futuro.

Scriveva Vittorio Foa: Una caratteristica dell'irrilevanza dei discorsi d' oggi è che l' interlocutore non ha più importanza. La parola è un impegno verso qualcuno, verso qualcosa. Quando l' interlocutore non è considerato o non c' è, la parola è nel vento.

Il libro di Roberto Gramiccia e Simone Oggionni, Le parole rubate. Contro-dizionario per la sinistra, Mimesis edizioni, 2018, si inserisce di diritto in questo solco di riflessioni ad usum della sinistra, già introdotte una ventina di anni fa.

E’ a partire dal titolo che siamo avvertiti sul progetto culturale e politico dei due autori: quel termine contro, oggi così desueto e alcuni decenni fa così praticato (contro informazione, contro cultura, contro storia, contro potere, contro psichiatria, ecc.), intende  ristabilire, attraverso la lettura critica delle parole chiave che una volta designavano il pensiero della sinistra, e che oggi non designano più, un possibile armamentario linguistico per una sinistra ancora capace di esercitare una sua egemonia culturale.

Certo, lo stravolgimento, o l’espropriazione, di alcuni termini che appartenevano al vocabolario della sinistra parte da lontano e ne accompagna la trasformazione. In un antico Almanacco del PCI(  pubblicazione annuale che molto aveva contribuito alla formazione e informazione politica dei militanti del Partito) degli anni Settanta del secolo scorso, Luciano Gruppi già rifletteva sul senso comune cui era approdata l’espressione datore di lavoro: ma non era l’operaio, il lavoratore, il vero datore di lavoro, in quanto colui che eroga forza-lavoro, anziché il capitalista, o l’imprenditore, che retribuisce la sua forza-lavoro? Potenza delle parole.

Pure, non è che non si abbia contezza dello stato delle cose: l’impossibilità di costruire un progetto politico, seppure di breve gittata, in un tempo storico percepito irrevocabilmente come istantaneo e simultaneo; un soggetto sociale disperso e abbandonato al suo isolamento e alla sua solitudine; l’assenza di una capacità desiderante dove immaginare un futuro, per sé e per gli altri, costituirebbe già una trascendenza; la dismissione, se non la fine, del lavoro umano che, per oltre due secoli a partire dalla Rivoluzione Industriale, aveva forgiato la vita di generazioni di lavoratori con il loro carico di rivendicazioni e di conflittualità,  mai disgiunto, però, dall’azione di difesa dello stato democratico, così determinante e così poco riconosciuta, per la nostra nazione.

Sono questi i temi che presiedono alle indagini critiche degli autori de Le parole rubate, insieme alla consapevolezza del ribaltamento della valenza comunicativa della parola quando legata ai nuovi media dell’informazione; una funzione comunicativa che si esaurisce in se stessa, nella sua sola nominazione-enunciazione: qui, in assenza di un reale e riconosciuto interlocutore, proprio come ci ricordava Vittorio Foa, nessuno si sente impegnato a dare un seguito attraverso l’agire politico. Oppure, come Alberto Olivetti evidenzia nella sua prefazione, nella comunicazione digitale si è prodotta una superfetazione tale che l’immagine e la parola risultano depotenziate del loro senso originario: meri nominalismi sulle cui intensità sono misurabili anche le nuove relazioni sociali.

Valga, tra i tanti lemmi che il libro affronta, l’analisi di quello di Meritocrazia, forse il più mistificante ma nel nostro caso paradigmatico, in quanto contiene la pretesa di legittimare una divisione sociale attraverso la nozione di natura.  Si “è” meritevoli come una qualità dello spirito, come un attributo che ci caratterizza alla nascita. Tanto basta a pacificare la supposta eticità della selezione, a destra come a sinistra, della classe dirigente. E nessuno che si interroghi se, al di là della dismisura tra le opportunità occorse secondo le diverse classi sociali di appartenenza, quell’attributo di meritevole non valga come quieto conformismo e allineamento utile alla perpetuazione dell’esistente.  

Oppure quello di Sindacato che, da strumento di avanzamento sociale, sarà individuato come strumento di conservazione. Ed è proprio qui che si annida il vulnus del nuovo linguaggio introdotto da un inedito ceto politico estraneo ai partiti tradizionali che, fino agli inizi degli anni Ottanta, avevano governato le conflittualità anche mediante la repressione più feroce, ma, pur sempre, nel riconoscimento della legittimità delle diverse parti sociali. Attraverso un ribaltamento di senso si designa oggi come conservatrice qualsiasi azione sia di impedimento alla costruzione di un “pensiero” finalmente liberato dalla categoria storica delle classi sociali. Potenza delle parole.

Due termini, quello della conflittualità e quello della classe, che Le parole rubate esplora alla luce delle trasformazioni intervenute, attraverso la rivoluzione tecnologico-informatica, nei modi di produzione.

Un’interpretazione, però, che non si affida soltanto all’analisi sociologica, ma guarda anche all’economia dei sentimenti, come è  quello della perdita. A questo proposito, nell’elaborazione della nozione di classe, così scrivono Roberto Gramiccia e Simone Oggionni: Sono bastate poche decine d’anni per seppellire sotto una montagna di detriti il senso di una parola per la quale un tempo si poteva anche morire.

Perdita, dunque, anche di una capacità del fare inchiesta, attraverso le indagini sul campo, dei gangli dove più si evidenzia l’esercizio del capitale. Valgano per tutte ciò che, a partire dagli anni del cosiddetto “autunno caldo” (1969), rappresentarono le inchieste di Giulio Maccacaro sulla salute degli operai della Montedison presso la quale teneva corsi sulle malattie del lavoro e informava gli operai sul diritto alla “non – delega” della salute. Oppure, quelle sul tema della fabbrica diffusa già introdotto, nei “Quaderni rossi”, da Raniero Panzieri.

Si evidenzia, attraverso la lettura de Le parole rubate, un patrimonio di conoscenza e di consapevolezza che non può andare disperso. Una delle motivazioni alla stesura di un vocabolario teso alla ridefinizione di parole oggi compromesse può essere, allora, quella di rivolgersi a un lettore disorientato e deprivato delle chiavi di interpretazione del presente, nel tentativo di accompagnarlo verso la riappropriazione di un proprio lessico di appartenenza.

Oppure, in ragione di una scrittura programmaticamente chiara e agevole, i due autori hanno inteso consegnare a un ipotetico giovane lettore il senso originario delle parole che più hanno informato e attraversato la storia del Novecento, proprio perché ne intenda lo svilimento attraverso il pensiero critico fondativo di quel vocabolario.

(enrica petrarulo)

 

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