Metropoli vietate a chi non consuma
di Michela Zucca Sherwood
A fine 2024 a Milano debuttano le ‘zone rosse’ in cui per tre mesi sarà in vigore il divieto di stazionamento per chi è molesto o ha precedenti per droga, furti o rapine e altri reati, fra cui l’occupazione di case e di “territori”. Le forze di polizia potranno disporre l’allontanamento immediato non solo di chi è violento o molesto, ma anche di chi è considerato pericoloso contribuendo, almeno nelle intenzioni, ad aumentare la percezione di sicurezza.
Di fatto la sicurezza in città è già aumentata: da inizio anno al 20 dicembre, sono calati del 13,5% i delitti e sono aumentati del 17,4% gli arresti. I delitti sono passati da 144.864 a 134.178 e gli arresti sono saliti da 6.472 a 7.604 con 29.422 denunciati e oltre un milione e mezzo di controllati in 90 mila servizi di ordine pubblico. I furti sono diminuiti del 10%. I dati, ancora non definitivi, includono anche 2500 espulsioni di stranieri, 520 rimpatri (quasi 160 più dell’anno scorso), il sequestro di cinque tonnellate di droga, otto sgomberi di occupazioni ‘massive’, per un totale di 1380 alloggi popolari occupati “recuperati” e un aumento degli sgomberi in flagranza.
Ma la motivazione della “sicurezza” non tiene. I reati comuni e gli omicidi sono in diminuzione da più di cinquant’anni tranne quelli commessi in famiglia, dai maschi di casa, che continuano ad aumentare e colpiscono prevalentemente le donne.
In realtà da decenni le metropoli stanno diventando off limits per chi non consuma, praticabili solo nel momento in cui spendi o, meglio ancora, lavori per arricchire i padroni.
Affitti alle stelle che obbligano al lavoro dall’alba al tramonto festivi inclusi. In alternativa, mutui capestro per comprarsi casa a decine di chilometri dal posto di lavoro, con tempi di spostamento di tre, quattro ore al giorno, che non lasciano respiro alla vita. La socialità circoscritta al luogo di lavoro, nessun rapporto col posto in cui si abita: quando si va in pensione si perdono i rapporti con i colleghi, che sono stati gli unici amici, e dove ci si trova a vivere si vede solo il deserto perché non si ha fatto in tempo a costruire alcun rapporto. I figli — se si sono potuti avere — sono già andati ancora più lontano, inseguendo la prospettiva di un “lavoro”. Molti si sono suicidati.
Una volta c’era almeno la prospettiva di un lavoro sicuro: adesso i pochi privilegiati che sono riusciti ad averlo non riescono nemmeno più ad andare in pensione — l’occupazione “aumenta” perché chi prima si ritirava dal lavoro adesso ci rimane fino allo stremo -. La mobilità sociale è bloccata da decenni: chi è figlio di proletari riesce anche a laurearsi, ma poi vivrà peggio dei genitori che hanno lavorato in fabbrica.
Oltre tutto, nelle metropoli inquinate le cause di morte aumentano e si vive di meno.
LAVORARE SOTTO PADRONE NON CONVIENE NEANCHE PIÙ. Se facciamo il calcolo di quanto costa vivere in una metropoli; del tempo (e dei soldi) che si perdono lavorando per lorsignori e viaggiando per raggiungere il luogo in cui si verrà sfruttati; della diminuzione di ferie e tempi liberi; dei divieti di frequentare il centro città; delle diminuzioni dell’aspettativa di vita per malattie legate all’inquinamento, specialmente in prospettiva del degrado climatico in atto, il conto della serva ci dice che l’unica cosa possibile e ragionevole è andarsene e cominciare l’autoproduzione.
L’inurbamento massiccio dal dopoguerra ha lasciato spopolate ampie aree della penisola: e non solo in luoghi “lontani”. Gran parte dell’Appennino emiliano per esempio è in svendita (per non parlare di porzioni estese delle Alpi non turistiche). Troviamo il coraggio di andarcene, di sabotare il sistema dei consumi, di disintossicarci dal mercato, di ricominciare ad autoprodurci (qualunque cosa, dal cibo alla cultura all’aggregazione alle relazioni) e di iniziare a vivere.