All’alba del 31 gennaio 1944, mentre, stando al ricordo di Vasco Pratolini, “sui viali della periferia tirava un vento diaccio che pigliava allo stomaco”, al forte Bravetta di Roma i nazifascisti fucilano dieci combattenti partigiani. Quei nomi, la cui esecuzione viene annunciata dalla radio, interrompendo l’ordinario palinsesto di canzonette, rappresentano, un po’ come sarebbe stato di lì a nemmeno due mesi dopo con le Ardeatine, tutto lo spettro delle culture, delle sensibilità politiche e dei vissuti che avevano animato ed animavano l’Antifascismo e la Resistenza.
Nomi cui sarebbero certo state presto intestate decorazioni al valor militare, vie, gare e gruppi sportivi, sezioni di partito, cooperative, circoli ricreativi e culturali ma la cui memoria sarebbe andata inesorabilmente perduta, con il consolidarsi della Guerra fredda e del centrismo democristiano, lungo tutti gli anni Cinquanta del Novecento. Ad un certo punto sarebbe stato cioè meglio non ricordare, almeno non oltre il perimetro del pietismo. Così la memoria o rimaneva confinata agli organi di stampa ed alle articolazioni di base dei partiti, impegnati a rivendicare la continuità con i martiri, oppure si dissolveva nel nulla, nel fisiologico processo mentale di rimozione di persone e fatti.
Restavano così soltanto le grandi personalità, sfuggivano invece quelle figure che non avevano magari assunto posizioni di vertice ma il cui ruolo e il cui sacrificio non sono certo stati da meno nell’incidere sui processi storici. Anzi, in termini quantitativi, si potrebbe affermare che proprio da queste figure sia giunto il contributo maggiore.
Negli ultimi anni, forse ormai decenni, per una necessità sui cui non può dirsi indifferente il peso del revisionismo strumentale, incentratosi notoriamente sulle vicende belliche e resistenziali della Seconda guerra mondiale, si è assistito ad un certo recupero delle esistenze dei singoli. E, come dovrebbe esser incontestabile, le vite non sono tutte uguali. A tutti i morti va la medesima umana pietà; le valutazioni, i bilanci politici e, ugualmente, storici debbono però necessariamente basarsi su ciò che si è fatto, e pensato, in vita. Acquisito questo elemento, compito di scrive di storia e fa ricerca deve essere comunque quello di nettare gli avvenimenti da ogni caricatura retorica, artificiosa o mitologica che sia.
Il saggio in questione risponde a questi paradigmi, ed è frutto di una sostanziosa ricerca tra documentazione d’archivio, di fatto sin qui inedita, fonti a stampa, fotografiche e memorialistiche di varia provenienza. A redigerlo, Donatella Panzieri, insegnante in pensione, ricercatrice e divulgatrice romana che si è occupata in particolare della memoria storica inerente la zona della valle dell’Inferno, poi valle Aurelia, di Roma, area che rappresenta uno snodo fondamentale anche per il vissuto qui restituito.
Vittorio Mallozzi, per il vero, nasce ad Anzio il 22 ottobre 1909. Si trasferisce nella valle dell’Inferno per lavorare alle fornaci, i cui fumi conferiscono il nome alla zona, in base a quella sorta di immigrazione di prossimità che ha caratterizzato i grandi centri urbani dell’Italia postunitaria. C’è richiesta di mano d’opera per costruire i materiali necessari soprattutto alle grandi edificazioni e ristrutturazioni urbanistiche della Capitale. Non è però un lavoro particolarmente stabile che, in largo anticipo su quello che avremmo poi chiamato precariato, necessita di alternanza con altri impieghi stagionali, come il lavoro nei campi. È questa la condizione sociale della famiglia di Mallozzi, in un quartiere, però, che nella frastagliata realtà lavorativa romana rappresenta un fulcro di rivendicazione ed organizzazione operaia. I fornaciai dell’Inferno, accanto agli edili ed ai ferrovieri, rappresentano infatti l’avanguardia proletaria capitolina. La zona diviene ricettacolo di sovversivismo ed insubordinazione, in cui il padre dell’anarchismo italiano, Errico Malatesta, aveva indicativamente deciso di dimorare, sentendo il popolo che vi viveva come il proprio. I fornaciai, alla testa delle agitazioni del Primo dopoguerra, sarebbero stati in prima linea anche nella battaglia contro l’affermazione del fascismo, negli Arditi del popolo, protagonisti delle Quattro giornate di Roma contro il III Congresso nazionale dei Fasci nel novembre 1921. Uno spaccato sociale e politico che non si sarebbe piegato del tutto alla normalizzazione del Regime fascista, con i perseguitati politici che avrebbero animato il dissenso per tutto il Ventennio e, in fine, la Lotta partigiana, sino all’estremo sacrificio, com’è stato per Alberto Di Giacomo, assassinato il 15 settembre 1944 ad Hartheim, campo di sterminio di Mauthausen.
Mallozzi assorbe questo clima e, sull’esempio del fratello Giuseppe, di otto anni più grande, si avvicina al Partito comunista d’Italia. Finito nel mirino della repressione, nel 1933 decide di espatriare per recarsi in Francia. Qui trova il grosso dell’esilio antifascista ed assume un ruolo attivo, giungendo a scrivere per la stampa di partito, per cui sta divenendo nei fatti un quadro. L’unica sua distrazione sembra essere la passione per il ballo. L’esilio non è però una passeggiata: c’è costante bisogno di denaro per vivere decentemente. Mallozzi scrive a casa a tal proposito e le lettere, come avveniva nel Regime, vengono fedelmente copiate, le trascrizioni o foto inserite nei fascicoli di polizia, e, nel caso, neanche inoltrate ai destinatari. Un lavoro di vigilanza grazie al quale, per quei paradossi della storia, disponiamo oggi di documentazione che, altrimenti, avrebbe rischiato seriamente di andar smarrita.
Ad un certo momento cadono su Mallozzi dirette accuse di aver sottratto dei fondi: imputazione da cui, in un qualche modo, sarebbe in fine uscito.
Con lo scoppio della guerra civile e sociale in Spagna non può certo sottrarsi all’arruolamento, divenendo Commissario politico della 2^ Compagnia del Battaglione Garibaldi. Una ferita qui avuta lo avrebbe reso permanentemente claudicante.
Come per molti Combattenti volontari antifascisti in Spagna, con la sconfitta sarebbe iniziato il calvario nei campi di concentramento francesi, in condizioni disumane aggravate dall’assurdo per cui, una volta dichiarata guerra alla Francia, tutti gli italiani, compresi gli antifascisti, vengono reclusi, in condizioni disumane, come nemici. Si preferisce infatti il rimpatrio, anche dianzi alla possibilità di confino e carcere. Mallozzi è assegnato a Ventotene, dove sono costretti i grandi nomi dell’Antifascismo italiano. Partecipa ai corsi di studio, prende appunti, elabora. Resta a Ventotene fino alla fine, tra gli ultimi confinati a lasciare l’isola, il 23 agosto 1943, in motopeschereccio, a quasi un mese esatto dalla deposizione di Mussolini.
A breve sopraggiunge l’8 Settembre e, quindi, la Resistenza. Mallozzi è stato sì un operaio delle fornaci ma, ormai, con l’esilio, la Guerra di Spagna, l’internamento ed il confino, è per il Pci un quadro politico ed intellettuale a tutti gli effetti e perciò lo nomina Commissario politico della III zona per i Gap. Mallozzi qui si trova accanto a giovani intellettuali di estrazione borghese, a lui socialmente alieni per origine, che a Roma compongono il grosso dei Gap. Ad organizzare le masse proletarie e sottoproletarie delle borgate romane è, invece, il Movimento comunista d’Italia – Bandiera rossa, che opera fuori dal Cln e che, per ovvie ragioni, non è riuscito ad intercettare una figura come quella di Mallozzi il quale, a sua volta, preferisce comunque sostare e dormire a casa di operai.
Ad ogni modo, l’attività partigiana prosegue per Mallozzi sino all’arresto, avvenuto ad opera delle Ss, guidate dall’interprete Federico Scarpato, la mattina del 19 dicembre 1943, a casa di Italo Grimaldi, Caposettore di Montesacro. I presenti, che probabilmente dovevano tenere una riunione, sono tutti arrestati, brutalmente pestati e condotti in via Tasso.
“Il Messaggero” del 1° febbraio 1944 riporta la notizia dell’avvenuta condanna a morte, il giorno prima, “delle seguenti persone”. Ne fa l’elenco. Mallozzi è erroneamente scritto Malocci. A chiusura, il capo d’accusa: “preparavano atti di sabotaggio contro le Forze armate germaniche e capeggiavano altri attentati contro l’ordine pubblico della città di Roma”.
Silvio Antonini
Roma, Odradek, 2022, pp. 299, € 26,00