Abbiamo intervistato Raphael Hoetmer, analista politico e membro del Grupo de Trabajo sobre Alternativas al Desarrollo de América Latina y Caribe, sulla complicata situazione in Perù..

Come si presenta oggi la situazione nel Paese e quali sono le prospettive per il futuro?

La situazione attuale è una sorta di status quo teso; le proteste nella maggior parte del Paese sono rallentate, soprattutto a causa delle vacanze di Natale e Capodanno, che molte organizzazioni considerano un momento inopportuno per avanzare. Allo stesso tempo, l’alto livello di violenza dello Stato ha avuto il suo impatto: ha generato paura e dolore, oltre che indignazione. In alcuni luoghi, come Andahuaylas, le proteste continuano su scala ridotta, mentre in altri le organizzazioni si preparano a riprendere le azioni nel nuovo anno.

In questo periodo il governo e il Congresso avrebbero potuto agire per rispondere alle agitazioni della popolazione, ma ciò non è avvenuto. Sebbene il Congresso abbia deciso di approvare un’elezione anticipata, questa avverrà solo nel 2024, troppo tardi per i manifestanti, che avrebbero voluto vedere le elezioni generali entro il termine minimo possibile del 2023. Da parte sua, Dina Boluarte (l’attuale primo ministro, N.d.T.) avrebbe potuto creare una via d’uscita dalla crisi: le sue dimissioni avrebbero significato elezioni entro sei mesi. Invece, ha scelto di rimanere al potere sulla base di un’alleanza civile-militare aperta, con chiari tratti autoritari.

Dopo i primi giorni con molto caos e poche risposte politiche, Boluarte ha scelto di rispondere alle proteste con la violenza, lasciando apparentemente le forze dell’ordine libere di agire a loro discrezione. Il bilancio è di 27 morti, secondo una geografia molto simile al conflitto armato interno, concentrato nelle regioni quechua di Apurimac e Ayacucho. Ancora una volta è evidente che la vita di coloro che vivono nelle Ande indigene non ha lo stesso valore di quella della capitale o della costa, dimostrando il razzismo sistemico e il colonialismo del potere che continua a organizzare la società e la politica peruviana fino ad oggi. In un certo senso è sorprendente che ciò avvenga in un governo del primo presidente donna del Paese, che parla quechua e proviene dall’Apurimac.

Il governo di Boluarte può essere legale in termini formali, ma manca di legittimità agli occhi della società, in particolare nella regione andina meridionale. È inaccettabile che la morte di 27 cittadini peruviani non abbia conseguenze politiche rilevanti. Allo stesso tempo è importante sottolineare che la situazione attuale non è una crisi singola, ma fa parte di un processo di collasso totale della società politica e della sua legittimità agli occhi della società. Sono già sei anni che non si sa chi sarà il prossimo presidente tra sei mesi.

Per quanto riguarda la società organizzata, è chiaro che non c’è un’unica organizzazione che guida le proteste: ci sono molte proteste ovunque che condividono certi discorsi ma hanno anche agende particolari. Sono molto più forti nel sud del Paese, il che è logico perché è lì che Castillo ha sempre avuto il maggior sostegno e dove la gente ha un discorso politico molto più anti-sistemico, anti-élite e anti-Lima.

Tutte e due le parti parlano di golpe: secondo te chi sta facendo un golpe e perché?

Credo che in realtà non ci siano solo due parti in conflitto, ma una varietà di posizioni sia a destra che a sinistra. Ci sono persino dispute sulla leadership a fronte del vuoto di rappresentanza nei diversi schieramenti politici. Ad esempio, c’è un settore che chiede il ritorno di Castillo, ma è una posizione che mi sembra minoritaria.

La posizione comune nelle proteste è “che se ne vadano tutti”, in modo che si possano tenere al più presto nuove elezioni generali. Ciò implica che sia Dina Boluarte che la Presidenza del Congresso dovrebbero dimettersi. Queste nuove elezioni non porterebbero necessariamente a una situazione migliore, ma consentirebbero una sorta di “reset” generale.

La realtà è che Castillo ha fatto un tentativo di autogolpe utilizzando gli stessi meccanismi usati da Fujimori nel ’93, ma senza alcun appoggio da parte dei poteri forti e quindi senza alcuna possibilità di successo. È stata una mossa sbagliata sotto molti aspetti. In termini etici e democratici questo tipo di azione antidemocratica non può essere accettata. Né è una giustificazione il fatto che l’opposizione non abbia lasciato governare Castillo o che abbiano tentato di delegittimare il del suo governo.

Se invece Castillo fosse stato estromesso dal Congresso, questo avrebbe generato un movimento molto più ampio e forte in difesa della democrazia e a favore di Castillo. In termini politici, questo sarebbe stato probabilmente meglio per lo stesso Castillo e sicuramente per il Paese. Una protesta più simile a quella del novembre 2020, in cui la popolazione ha espresso il proprio rifiuto delle mosse autoritarie dell’opposizione di destra, ma questa volta radicata nell’interno del Paese.
È evidente che gran parte della destra sia antidemocratica e razzista in Perù, ma optando per l’autogolpe, Castillo ha permesso loro di avanzare all’interno del quadro legale e costituzionale del Paese.

Qui in Europa molti parlano di Castillo come di un candidato “andino”, è così? E che ruolo giocano i popoli originari?

Castillo proviene dalla zona andina settentrionale del paese, che ha subito un forte processo di deindigenizzazione. In quest’area ci sono pochissime comunità indigene con una forte cultura, lingua o pratiche culturali indigene, ad eccezione di Ancash e di alcune aree di Lambayeque e Cajamarca. Castillo appartiene piuttosto alla cultura contadina, che è anche una forte identità collettiva con pratiche comunitarie, con Cajamarca come principale centro politico e organizzativo.

Il governo di Castillo non aveva un programma a favore degli indigeni, al di là di alcuni gesti simbolici. In particolare, per quanto riguarda l’Amazzonia, ha promosso politiche a scapito dei diritti territoriali e culturali dei popoli amazzonici. In termini di mobilitazione, questa si concentra nell’area quechua del Paese. Da parte del movimento amazzonico e delle comunità aymara c’è anche una richiesta di cambiamenti più profondi nel Paese che potrebbe esprimersi nelle prossime settimane.

Invece che parte hanno avuto le grandi corporazioni dall’elezione di Castillo fino ad ora?

Mi sembra che anche in questo caso si debba distinguere tra varie posizioni. C’è un’estrema destra che sta tentando di cacciare Castillo dal potere da prima che inziasse a  governare, parlando di frode. Un’estrema destra molto conservatrice, razzista e autoritaria, che ha come leader López-Aliaga, il nuovo sindaco di Lima, e che sta cercando di prendere il potere. Sebbene non rappresentino una parte così ampia della popolazione, muovono molto denaro e potere e sono molto pericolosi in uno scenario come quello attuale.

Ci sono altri esponenti della destra impresariale che non hanno simpatia per Castillo, ma che sono guidati principalmente dai loro interessi economici. E la verità è che solo i primi due gabinetti di Guido Bellido e in particolare di Mirtha Vasquez hanno cercato di apportare cambiamenti sostanziali e riforme dell’economia e della società, con un ruolo chiave del ministro dell’Economia e delle Finanze Pedro Francke. In seguito, il governo di Castillo è stato irregolare e in gran parte funzionale agli interessi delle élite economiche. In effetti, le compagnie minerarie – un gruppo molto potente in Perù – hanno ottenuto buoni risultati nell’ultimo periodo grazie agli alti prezzi dei minerali. Non sono convinto che questo settore sia soddisfatto dell’attuale crisi politica, che comporta rischi per i loro progetti e investimenti.

Da un punto di vista più strutturale, le proteste rifiutano un modello radicale neoliberale di società ed economia e il modo in cui questo continua a produrre un paese molto diseguale, con un’enorme frattura sociale tra la costa (e in particolare Lima) e il resto del Paese. Il “que se vayan todos” è anche una richiesta di reale trasformazione sociale, di porre fine al razzismo sistemico e di creare un paese più giusto per tutti.

Una richiesta di cambiamento che ha portato alla vittoria elettorale di Castillo (e prima ancora di Humala) e che genera regolarmente scenari di crisi e conflitto. Il rifiuto delle élite e della politica di rispondere a questa aspettativa di cambiamento è alla base di quanto sta accadendo in questi giorni in Perù.