A quarant’anni dalla nascita del Repartino Autogestito per l’Interruzione Volontaria di Gravidanza, interno al Policlinico “Umberto I”, ricordiamo attraverso testimonianze, immagini ed un esercizio di memoria collettiva, gli inizi di un’esperienza radicale e preziosa che oggi è messa a rischio dalle politiche discriminatorie dell’azienda ospedaliera!
di Infosex
“Abortire per non abortire più”… Subito dopo l’emanazione della Legge 194, il 22 MAGGIO 1978, nell’auletta occupata del Policlinico si cominciò a spingere la discussione nella direzione del rendere esecutiva la legge, perché di fatto non lo era. Le compagne del collettivo di ostetrica conoscevano reparti completamente inutilizzati, con letti e strumenti chirurgici.
Scrive La Repubblica (7 giugno 1978): «Roma, decisa in assemblea l’applicazione della legge. La sfida è cominciata. Da una parte gli obiettori, gli appelli della chiesa, le strutture sociosanitarie insufficienti; dall’altra le centinaia di richieste per abortire legalmente, i medici progressisti, la Regione e soprattutto le donne. Non è una legge, questa sull’aborto, che poteva cadere nell’indifferenza: a due giorni dalla sua entrata in vigore si moltiplicano le iniziative, le assemblee, gli incontri per garantire la sua applicazione e per difenderla. Al Policlinico, dove la maggior parte dei sanitari si era espressa per l’obiezione, ieri c’è stata un’assemblea a cui hanno partecipato le donne di quartiere, il personale paramedico e i medici. E un dato nuovo, al termine del dibattito che pure ha messo per l’ennesima volta in luce le carenze strutturali dell’ospedale, è uscito: si potrà abortire anche nelle cliniche universitarie. Da oggi verranno accettate le domande e, tra una settimana, saranno praticati i primi aborti».
Al Policlinico si susseguono riunioni e incontri con i collettivi femministi del quartiere. Il 21 GIUGNO del 1978 viene occupato il Repartino: il tempo di organizzare l’accettazione, dove il medico avrebbe inviato le donne al III piano della clinica ostetrica. Con le femministe capaci di attivare il metodo Karman, e il dottor Enzo Maiorana che garantisce l’accettazione delle prime 4 donne che devono abortire, si attiva il reparto di interruzione di gravidanza. Il policlinico Umberto 1 è il primo ospedale romano che, attraverso l’occupazione di un reparto inutilizzato ma funzionante, impone l’aborto gratuito e autogestito. Gli altri ospedali romani, come il San Giovanni o il San Camillo, non furono in grado di fare un’occupazione vera e propria e i collettivi femministi aprirono trattative con le direzioni sanitarie.
Graziella Bastelli, tra le protagoniste dell’occupazione al Policlinico, in un’intervista rilasciata nel 21 Febbraio 2006 ricorda: «Nel 1978 la Legge 194 suscitò tante discussioni all’interno dei movimenti femministi, soprattutto perché perpetuava un controllo sulle donne e perché prevedeva la settimana di attesa in cui si invitavano le donne a riflettere sull’azione che si apprestavano a compiere […] Ma dopo un momento iniziale di sconcerto, era chiaro ai più che la 194 c’era e andava applicata. Il Repartino nasceva con lo slogan ‘abortiamo per non abortire più’, per dare massimo risalto alle lotte per l’autodeterminazione delle donne, per la gestione della propria sessualità e per la scelta della temporalità legata alla propria maternità. Ho cominciato come studentessa di medicina e sono entrata nel collettivo a 20 anni. Ho fatto esperienza del Repartino a 27 anni. Noi del Policlinico avevamo bisogno di concretizzare e venivamo criticati come poco teorici. Ma all’epoca c’erano i giusti rapporti di forza per passare dalla teoria alla prassi, e il Repartino è stata una esperienza ricchissima».
GLI ANTEFATTI: IL COLLETTIVO DEL POLICLINICO E I RAPPORTI CON IL FEMMINISMO
Il Repartino non nasce dal nulla, tanto come esperienza quanto come espressione della capacità di autorganizzazione delle donne. Non è infatti un caso che la sperimentazione parta dal Policlinico Umberto I: il Collettivo di lavorator* e student* del Policlinico, dal 1973 in poi, comincia una grande battaglia per l’assistenza e la regionalizzazione, e ancora sui pagamenti, cambi e assunzioni dei lavoratori.
Nel 1974 ne segue una importante lotta – racconta Graziella: «Dal Policlinico partivamo in marcia fino al Ministero della Pubblica Istruzione o al Carcere Regina Coeli. Facevamo cortei dentro al Policlinico coi bambini per rivendicare l’asilo nido interno. L’esperienza del 1974 per l’asilo nido fu un grande coagulante; calcolando che il 90% dei lavoratori erano donne e quindi l’asilo era una necessità forte per i figli. Questa lotta aveva insegnato e amalgamato molto, le assemblee ad alto numero femminile c’erano dunque già da tempo, e di aborto si era già iniziato a parlare […] La rivendicazione dell’asilo aveva poi determinato un interesse diffuso e collettivo per i temi normalmente legati alle attività di cura della donna e alle problematiche connesse con la maternità, libera e frutto di scelta consapevole».
Il collettivo del Policlinico (caratterizzato da una composizione mista e non del tutto interno al movimento femminista), già dalla grossa attivazione del 1974 che portò a 6 mesi di mobilitazione permanente, aveva affrontato la questione dell’aborto sotto diversi aspetti: da quello amministrativo, all’assistenza all’interno della struttura ospedaliera universitaria; non solo dal punto di vista femminista ma coinvolgendo all’interno di queste assemblee e dibattiti anche donne poco sensibilizzate alle questioni di genere.
L’alleanza immediata con il collettivo femminista di San Lorenzo e con Simonetta Tosi, che certo non era una “femminista di ultima generazione” ma aveva la sua storia proprio nel femminismo romano, arricchisce l’esperienza delle compagne del collettivo del Policlinico e degli stessi compagni che si rendono disponibili a fare tutta una serie di lavori necessari a far funzionare il reparto (dalle pulizie al reperimento di materiale sanitario), mentre le donne si occupano di tutto il resto gestendo sia la fase pre che post intervento: dalle accettazioni, ai colloqui, alle assemblee sulla contraccezione, e tutta la pratica del Karman.
LA NASCITA DEL REPARTINO
La storia del Repartino di aborti autogestiti del Policlinico è una storia emblematica: di gioia, lotta e conquista. Dal punto di vista umano, il fattore aggregante e la solidarietà tra categorie di lavoratori e lavoratrici con le utenze della struttura sanitaria è il valore aggiunto, a cui aspirano da anni le proteste degli “autonomi” del Policlinico: cambiare il rapporto con il paziente, che da spettatore passivo deve divenire attore consapevole e quindi ‘attivo’ di quanto si muove sulla sua pelle.
Infatti, grazie anche al sostegno di collettivi femministi come quello di San Lorenzo con Simonetta Tosi, il Repartino degli aborti, nella sua fase autogestita, non fu solo un contesto medico e medicalizzato nel suo operato, quanto piuttosto un punto di riferimento per le donne che dovevano abortire o avevano abortito, attraverso assemblee quotidiane e incontri sulla prevenzione. Sul terreno della pratica della lotta dal basso e quello della conquista l’esperienza del Repartino permise:
- di sperimentare nel 1978 una diversa ed unica alleanza fra alcuni collettivi femministi del quartiere di San Lorenzo e un collettivo misto di operatori sanitari, arrivando ad una condivisione di agiti che, nell’applicazione di una legge piena di contraddizioni e illegalità legalizzate, ne imponeva l’applicazione con una gestione totale da parte dell’utenza, ovvero delle DONNE;
- di dare senso e contenuti all’autodeterminazione tramite l’ascolto dei bisogni soggettivi e collettivi per offrire salute e benessere, libertà di scelta nell’essere madre e donna, conoscenze sul corpo e sulla sessualità intesa anche e principalmente come piacere. Il tutto in una struttura sanitaria pubblica professionale e di qualità fatta dalle donne per le donne;
- di mettere in evidenza l’ipocrisia di chi aveva “partorito” questa legge per NON applicarla e farla applicare. Sicuri che l’obiezione di coscienza, i vari passaggi burocratici che penalizzavano e colpevolizzavano le donne, la mancanza/carenza di finanziamenti, di spazi e di operatori nelle strutture sanitarie, avrebbero lasciato solo sulla carta questa legge voluta con lotte e mobilitazioni dalle donne. Venne inoltre messa in luce l’ipocrisia del potere ecclesiastico e medico che doveva mantenere i profitti nelle cliniche e negli studi privati che si erano arricchiti con gli aborti clandestini;
- di chiarire che l’occupazione e l’autogestione di un repartino IVG, a pochi giorni da una legge nazionale, non poteva essere riportata alla “normalità” e strumentalizzata dalle strutture pubbliche che lo dovevano garantire, perché era una provocazione nei confronti della loro assenza e perché era nata chiarendo che non avrebbe sostituito quello che loro dovevano attivare in tutti gli ospedali e con precise indicazioni: applicazione del metodo Karman, ovvero dell’aspirazione, perché meno medico, meno violento e meno invasivo del raschiamento, imparando questa nuova pratica dalle compagne femministe che, negli anni precedenti erano state l’unica alternativa ai “viaggi della speranza” in Inghilterra e alle mammane nostrane;
- di imporre che l’occupazione del Repartino potesse favorire l’estensione delle pratiche oltre quello stesso servizio. Nelle sale parto contro le violenze ostetriche e la disumanizzazione dei suoi spazi; negli ambulatori con le lunghe liste di attesa; nei reparti ostetrico-ginecologici pretendendo un reparto per le puerpere e più personale; in riferimento al nido tanto distante dalla sala parto che costringeva le donne che avevano partorito con il cesareo a non poter vedere e allattare i propri figli per 24/48 se non avevano un familiare che le accompagnava con una delle rare sedie a rotelle della clinica; nella denuncia costante dei medici obiettori del Policlinico (il 99%) che lavoravano nel privato clandestino. Tutti gli spazi e l’offerta sanitaria venivano controllati, perché l’OCCUPAZIONE del Repartino aveva la precisa progettualità di concretizzare una sanità pubblica gestita dall’utenza e dove i medici non erano i detentori di un potere scientifico sui corpi passivi di chi richiedeva ascolto, prevenzione, cure, rispetto, ma semplici persone che condividevano con altre le loro conoscenze.
IL METODO KARMAN
Prima dell’applicazione della Legge 194 c’erano i cosiddetti ‘Cucchiai d’oro’ che lucravano sulle donne a loro rischio e pericolo.
Il nome di ‘Cucchiai d’oro’, attribuito a questi professionisti dell’aborto clandestino, rigorosamente in cliniche private e a carissimo prezzo, rievocava il loro strumento di lavoro: il cucchiaio di ferro adoperato per la pulizia dell’utero.
La discussione sul metodo Karman (ovvero l’aspirazione), metodo molto meno traumatico per le donne e per l’utero rispetto al raschiamento praticato dai cosiddetti ‘Cucchiai d’oro’ anche per minacce d’aborto, fu forte anche all’interno del Collettivo misto del Policlinico e permetteva di ragionare sulla possibilità di mobilitarsi all’interno della struttura pubblica, e fare ‘piazza pulita di cucchiai e mammane’.
Il metodo veniva praticato in Francia, lì partivano molte compagne per apprenderlo e riprodurlo. Una nota del quotidiano La Stampa, datata 8 Settembre 1978, riporta le parole di una donna e femminista che da anni si interessava al tema dell’aborto: «Ci sono stati momenti in cui fra Crac, Cisa, Nuclei aborto femministe facevamo in una settimana tanti interventi quanti ne fanno oggi le strutture pubbliche. Ma allora lo si sapeva bene, c’erano i cucchiai d’oro, le cliniche per le privilegiate, le mammane, i voli charter per Londra. E oggi, tutte le donne che continuano a aver bisogno di un intervento che fine hanno fatto? Non perdiamoci dietro le manciate di polvere che si getta negli occhi né dietro le scaramucce: il mercato clandestino è fiorente, la rotta per l’Inghilterra è battutissima con una rabbia e un dolore ancora più profondo di prima, se possibile».
C’erano però anche le compagne che praticavano il Karman clandestino, per evitare che le donne fossero costrette a viaggi a Londra o in Francia (chi poteva permetterselo ovviamente) ma rischiando loro stesse in prima persona a livello penale. «Chi invece non poteva partire” – racconta Graziella – aveva la possibilità di pagare fior di quattrini in cliniche private, dove ci si affidava al chirurgo di turno. Il collettivo del Policlinico aveva individuato diversi di questi medici, che infatti con l’approvazione della 194 intrapresero la strada dell’obiezione, e che erano inadeguati alla pratica. Per questo venivano segnalati con volantini o con il ‘lancio delle 5 lire’ quando entravano al policlinico. Molti di questi usavano le strumentazioni pubbliche a fini privati ».
La pratica dell’aborto clandestino, oltre ad essere costosa per le donne, il più delle volte veniva agita di nascosto ed in contesti non sempre sicuri, rientrando quasi in dinamiche di ricatto. Si giocava sui sensi di colpa delle donne, trascurando un elemento fondante che divenne invece prioritario nel Repartino e nella legge, ovvero la prevenzione all’aborto.
L’obiettivo del Repartino occupato era dunque proprio quello, cioè ‘attraverso l’aborto annullare l’uso all’aborto’, che comunque rappresenta per la donna un’esperienza complessa e violenta. Spesso le cause degli aborti erano date dalla mancanza di possibilità economiche, quanto anche dall’avere già altri figli, con la conseguente consapevolezza per la donna di non potercela fare. La vulgata che invece giocava sulla dicotomia dell’aborto come assassinio insisteva (e lo fa tutt’oggi) sul pregiudizio culturale della donna frivola, tutta passione e piacere, superficiale e disinteressata verso quello che porta in grembo. L’aborto era invece (e in tante occasioni lo è tutt’ora) una rinuncia e spesso una scelta necessaria: questa descrizione non era quella che andava per la maggiore negli ambienti intellettuali e nella vulgata ufficiale. La 194 non doveva solo essere applicata ma prevedeva un necessario e importante lavoro di controinformazione.
VITA DI REPARTINO
L’approvazione della Legge 194 fu il risultato di un compromesso che le donne non accettarono facilmente, nonostante si richiedesse a gran voce l’urgenza di una legge sull’aborto. Le donne, attraverso le lotte e il referendum, rivendicavano la loro libertà di scelta e l’annullamento del mercato clandestino di aborti. La Legge 194 tradì entrambe le aspettative sotto diversi punti di vista.
Per questo il Repartino occupato fu un tentativo concreto per misurarsi con tutti i diversi bisogni delle donne, facendo i conti con le contraddizioni che dovevamo affrontare. Con l’introduzione dell’aspetto della prevenzione, quello dell’ “abortire per non abortire più”, si caricò di un forte senso di solidarietà e confronto. Racconta ancora Graziella: «Molte delle donne che avevano subito l’intervento, spesso tornavano per darci una mano e fare le volontarie con noi nel Repartino, magari facendo più caciara che altro, perché c’era un clima di grande allegria al Repartino, più che coordinarsi e organizzarsi!»
Ben presto l’accettazione delle donne diventò problematica, perché oltre Maiorana non c’era nessun altro medico. Molte donne del collettivo facevano i loro turni nei reparti e poi, finito il turno, andavano al Repartino. Dopo un mese il Repartino autogestito viene dotato di un infermiere e un portantino ufficiale. Personale ‘ufficiale’ concesso dalla struttura sanitaria, per permettere ai ‘volontari’ di continuare a praticare aborti e tenere in piedi il Repartino, seppur occupato e gestito in modo assembleare. C’erano assemblee tutti i giorni con le stesse donne che si affacciavano al Repartino per abortire, e si discuteva soprattutto della prevenzione all’aborto: pillola, diaframma, preservativo, spirale.
«Si condividevano i nostri sogni con la necessità di rendere un servizio, che per molti mesi, anche dopo l’emanazione della legge, non era praticato in altri ospedali, perché ovviamente non garantiva interessi economici rilevanti. L’esperienza del Repartino occupato stravolse gli equilibri interni nella clinica ostetrica: i volontari e le volontarie entrano ovunque, anche nelle sale parto, dove ci sono e c’erano condizioni pazzesche, con donne in barella anche dopo il cesareo» – racconta ancora Graziella- «C’erano ostetriche anziane che dialogavano con le pazienti in modo aggressivo e cattivo: ‘hai voluto la bici e mo pedali’…’t‘è piaciuto e mo piagni».
In un contesto dove vigeva la cultura predominante, quella gerarchica in cui la donna è ai piani bassi, il Repartino «diventava una spina nel fianco di ostetrica. Le donne aumentavano di giorno in giorno, si praticavano anche 7–8 aborti al giorno, lavorando dalla mattina alla sera in modo costante. La pressione e presenza continua costrinse l’amministrazione a concedere un minimo fondo per disinfettanti vari e beni di necessità. Alcuni medici si affiancarono a questo punto cominciando a dare un contributo, che si comprenderà dopo, a doppio fine. Quando la polizia sgomberò per la terza volta a Settembre il Repartino cacciando gli occupanti, l’attività continuò ad opera di questi medici che ottennero contratti e che operavano con le guardie alle porte per tenere fuori chi volontariamente, all’indomani della 194, ne aveva reso possibile l’applicazione in Italia».
Il ‘Cetriolo contro’, rivista autoprodotta all’interno del Policlinico, raccontava le faccende dei professori baroni Marcelli e Coscia: «sono tutte persone che usano poi il Repartino per fare la loro carriera: cariche e ruoli all’interno di ostetricia; mentre le compagne come Simonetta Tosi, femminista e medico, vivono il Repartino differentemente, dando importanza ai discorsi della prevenzione e controinformazione, nell’ottica di spingere sull’autodeterminazione. Non era il medico che faceva il servizio e basta! Ma si viveva questa azione medica come azione umana. Un sogno che l’esperienza del Repartino ha trasformato in realtà».
LE TESTIMONIANZE DELLE DONNE
Quelle che seguono sono due diverse testimonianze. La prima di una donna che venne ricoverata al Repartino IVG, e la seconda di una lavoratrice che partecipò all’occupazione dal 21 giugno del 1978:
«Superato il primo momento di sgomento nell’apprendere il mio stato di gravidanza, piena di illusioni per la tanto strombazzata Legge 194, ho iniziato il mio giro (…) nei vari ospedali di Roma e provincia. Ben presto il mio ottimismo si trasformò in angoscia mista a rabbia di fronte a liste interminabili. (…) Le cose andarono diversamente alla seconda clinica Ginecologica del Policlinico, dove un Repartino era stato occupato ed autogestito da un gruppo di femministe. (…) Cartelli con vistose frecce mi condussero per mano al secondo piano di questa clinica.
Entrando, sui muri, brevi e indicativi riassunti dei fatti più salienti di una lotta assurda, impari, condotta per anni da queste donne contro istituzioni atte solo alla salvaguardia di un potere che fa di chi dovrebbe essere al servizio delle donne, in questo caso, un proprietario di cose e persone che assolutamente debbono appartenergli. La disponibilità delle ragazze che si trovavano nel corridoio quasi mi lasciò incredula. Alle timide domande le risposte erano chiare (…). La mattina del 22 agosto, dopo una settimana insonne e agitata, mi trovai con altre sette donne ad espletare quelle formalità richieste dalla Legge, dopodiché prendemmo possesso dei nostri letti che con mio grande stupore non avevano lenzuola rotte o sporche ed erano ben fatti e candidi. Tra di noi non parlavamo (…) soprattutto guardavo con tristezza due ragazze sole, questo mi colpì.
Infatti mi chiedevo se questo aborto era poi una conquista delle donne. In una maniera o nell’altra l’uomo ne è sempre fuori. (…) Venne il mio turno, dopo aver salutato mio marito, mi trovai in sala operatoria dove ebbi l’attenzione e l’affetto di tutte. Abbiamo parlato e scherzato con quelle donne, mentre l’anestesista mi spiegava cosa mi stava facendo, quello che avrei dovuto provare.
Chiesi di collaborare con lui comunicandogli tutte le sensazioni che provavo, mi sentivo più sollevata e tranquilla. (…) Era finita, non avevo assolutamente dolore, allora feci il confronto con un precedente raschiamento di alcuni anni fa. Stavo bene, solo avevo sonno. Tra il dormiveglia passò un lungo pomeriggio. Alle cinque circa ci fu una riunione delle femministe sui contraccettivi, La sera stavamo tutte bene e perciò parlammo fino a tardi, di tutto, come se ci conoscessimo da tempo. (…) Tornai ancora in quel reparto e con qualcuna di loro ho seguitato a vedermi, a parlare dei miei e dei loro problemi».
(Testimonianza scritta di una donna che ha abortito al Repartino)
«Il 21 giugno le compagne femministe e lavoratrici del Policlinico insieme con le donne che attendevano di interrompere la gravidanza hanno occupato un reparto della seconda clinica ostetrica, riservato in passato ai clienti di riguardo dei baroni Crainz e Carenza e che da qualche anno, in seguito alle lotte portate avanti dai lavoratori del Policlinico contro le speculazioni sulla pelle dei malati e contro un’assistenza ospedaliera di prima e seconda classe, era stato chiuso ed era rimasto inutilizzato.
Questa occupazione nasce dall’esigenza di tutte le donne che, in attesa di abortire e da tempo sbattute da un ospedale a un altro, hanno deciso di organizzarsi per garantirsi gli interventi che nessun ospedale ancora praticava e che anche i nuclei di compagne che fino a quel momento l’avevano praticato clandestinamente, avevano correttamente sospeso volendo mettere a nudo la responsabilità delle istituzioni, di fronte alla necessità di applicare immediatamente la legge.
Questa spinta all’occupazione ha subito legato con le compagne femministe, proprio per la volontà di queste di entrare negli ospedali: questa scelta da parte di vari collettivi femministi è stata tutt’altro che comoda, poiché andava a cozzare con una realtà che istintivamente ci veniva da rifiutare, quella legge sull’aborto. Una legge che non avevamo voluto, che rinnegava l’aborto come un’esperienza da vivere coscientemente, da vivere come donne tra donne e la trasformava invece in una trafila ambulatoriale, in un normale intervento chirurgico. (…) Infine una legge che di per sè era perfetta per non venire applicata, con quella dell’articolo che prevede l’obiezione di coscienza. (…)
Questa legge che mette in mano la donna a pochi medici ‘volenterosi’, solo di far carriera andava fatta funzionare? Oppure è necessario essere coerenti fino in fondo e lasciare questo compito in mano alle baronie da un lato e dall’altro a quel baraccone che è la struttura sanitaria (…)? Questo nodo ancora non l’abbiamo sciolto (…) ovvero non è l’autogestione del nostro repartino, ovvero della legge che vogliamo, né ci spinge l’entusiasmo dell’esemplarità di questa lotta. Semmai è il bisogno di irrompere nel sacro tempio (l’ospedale) in cui dovremmo passare come soggetti totalmente passivi e scardinare gli sporchi progetti che i baroni stanno facendo sul nostro corpo. Insomma non intendiamo sostituirci alle istituzioni: siano loro ad applicare la legge! (…)
Noi vogliamo però imporre il controllo sull’applicazione di questa legge, il controllo sui medici, su come vengono fatti gli interventi, su come li vivono le donne; vogliamo stravolgere con i nostri contenuti il concetto di una medicina da subire in una da vivere consapevolmente. (…) I medici hanno appreso il Karman dalle compagne dei nuclei. (…). Inoltre ha reso possibile un continuo scambio con le donne, ed è proprio per questo rapporto che insieme siamo riuscite a sdrammatizzare il problema dell’aborto facendo in modo che ogni donna fosse lei in prima persona a decidere la scelta di una maternità, a vivere fino in fondo quel che vuol dire decidere del proprio corpo. Ma il discorso che le compagne hanno portato avanti non è solo quello dell’aborto; è il controllo su tutte le sfere della salute della donna: entrare nella sala parto, vedere con quanta violenza sia psicologica che materiale le donne vengono trattate, tutto ciò e molto ancora è per noi il ‘controllo’. Ed è proprio perché i nostri contenuti andavano in conflitto con la figura del medico, del barone, dell’amministrazione, che la polizia è intervenuta a sgomberare il reparto».
(Testimonianza di una compagna del Policlinico che, con i collettivi femministi, ha occupato il Repartino IVG)
Intervista video a Graziella Bastelli, realizzata presso il Nuovo Cinema Palazzo, in occasione del Festival di Storia “Roma città ribelle”. Graziella ci racconta l’occupazione del Repartino e le lotte femministe che ha vissuto in prima persona e che continua ad animare anche oggi con il movimento Non una di meno. A lei vanno i nostri ringraziamenti per averci inoltrato il materiale storiografico da cui ha preso vita questo articolo.
Consigliamo la lettura di questo testo di Alessandra Conte, pubblicato su “Napoli Monitor” e linkato sul blog di Non una di meno.